La
casa della gioia di Edith Wharton – Traduzione di Gaja Cenciarelli
– Neri Pozza, 2014
Non
avevo mai letto nulla di Edith Wharton. Avevo tentato di approcciarmi
a L'età dell'innocenza, ma la traduzione era così pessima che ho
rinunciato dopo un paio di pagine, ripromettendomi di recuperare poi.
Tra l'altro è sicuramente per via di quell'edizione che ho sempre
considerato la Wharton come una scrittrice leggera, frivola, di
quelle che accompagnano le pause tra un librone e l'altro. Quel
particolare L'età della gioia ha una copertina rosa porcello con
l'immagine di una donzella in mezzo a un prato, contornata da un
tripudio di allegri ghirigori dorati. Quindi beh, l'idea che mi ero fatta della Wharton era dopotutto ben supportata da tanta frivolaggine.
E
poi ho letto La casa della gioia. Tra l'altro è la seconda
pubblicazione della collana Le Grandi Scrittrici della Neri Pozza,
che mi ispira assai, consiglio di dare un'occhiata.
Dicevo,
La casa della gioia. Prima di tutto c'è Lily, che è una donna
meravigliosa, semplicemente perfetta, bellissima. Ha ventinove anni,
però, ed è senza un soldo. Rimasta orfana in giovane età, viene accolta da una zia
ricca, che pur non essendo avara, non le assicura quel dispendio di
cui Lily sente il bisogno, sia per influssi materni che per far parte
dell'alta società newyorkese dell'epoca. E poi appunto, oltre a Lily
c'è New York nei primi anni del '900. O meglio, c'è una fetta
piuttosto esigua di questa New York, che però appare così
preminente, e non soltanto per i diretti interessati. È l'alta
società finanziaria, coi suoi banchieri, i suoi ricchi, le
ereditiere, le feste, il gioco d'azzardo.
E
Lily che cerca disperatamente marito in questo scenario ostile,
falsamente sorridente, cinico. Lily costantemente in bilico.
Mi
è piaciuto da morire e lo consiglio senza remore.
Crune
d'aghi per cammelli di Maria Silvia Avanzato – Fazi Editore, 2013
Questo
è un libro buffo, leggero, divertente. Di quelli che scivolano senza
farsi rincorrere, coi toni scherzosi, lo stile colloquiale
all'estremo. La protagonista, Edgarda Solfarelli, talvolta si rivolge
direttamente al lettore, disossando la quarta parete. E soprattutto,
è un libro... non so bene come descriverlo. Parla di libri, certo,
ma in senso lato. Prima di ogni cosa, parla dell'ossessione di
Edgarda per la pubblicazione. Non per la scrittura. Ribadisco, per la
pubblicazione. Inizialmente non ero molto certa di quale fosse la
posizione della Avanzato sulla sua protagonista, ma alla fine credo
che la guardi con un misto di compassione e rispetto. Perché Edgarda
non è che scrive male, e l'autrice aggiunge un piccolo testo scritto
da lei per dimostrarcelo, una brevissima prova di bravura. Diceevo, rispetto perché ci crede e ci prova e non si risparmia. Il
problema di Edgarda è l'ossessione. So che è una parola che sto
ripetendo troppo, ma non posso farci nulla, è quella che muove le
scelte e i movimenti di Edgarda. Il fatto che stalkeri scrittori
famosi che non le piacciono affatto pur di poter chiedere loro
recapiti di editor, il fatto che finisca per destinare tutti i suoi
averi alla ricerca di qualcuno che possa scoprirla e pubblicarla,
quello che scrive, quanto scrive, perché scrive. Edgarda non parla
dei suoi personaggi – a parte l'omissis – o delle storie che sta
creando, dei suoi dubbi sulla trama, sulla costruzione, sul finale.
Parla di pubblicazione, di quella casa editrice che le piace tanto,
di quello che potrebbe piacere al direttore Valerio La Sorte. E non è
che Edgarda sia stupida o ignorante sull'ambiente, anzi. Direi che lo
riprende abbastanza bene, con tutti i vari wanna-be-scrittori
convintissimi, gli intellettualoni snob, gli operatori poco competenti.
Mi
è piaciuto, pur con l'improbabilità di certi avvenimenti. E
soprattutto mi ha divertita un sacco. E mi ha dato una corposa pacca
sulla spalla.