Non
so cosa mi abbia svegliata stamattina intorno alle 7, ma sono
contenta di avere un'oretta extra per scrivere questo post. Anche se
prevedo un consumo titanico di caffè per tenermi in piedi nell'arco
della giornata.
Fabio
Stassi lo presenterò il 14 giugno durante una manifestazione della
mia zona chiamata Libri per strada. Quando la Libraia me l'ha detto
ho corso e ballato attorno al tavolo espositivo urlando il nome di
Stassi, inframezzato da 'Ommioddio' e variegate esclamazioni di
gioia.
Erano
presenti due bambini. Non credo che si riprenderanno.
Di
Stassi avevo già letto L'ultimo ballo di Charlot, ne avevo anche parlato qui. Così, tanto per. Nei prossimi giorni
è il caso che io butti giù gli argomenti di cui chiacchierare,
anche se sono un po' indecisa. Il fatto è che in Come un respiro
interrotto si parla molto del clima politico degli anni '70 e
verrebbe logico fare domande sul contesto, su cosa sia cambiato
secondo l'autore, questo genere di cose. Eppure non riesco a
impedirmi di pensare che macchiare un incontro letterario con
discussioni politiche sarebbe una scelta volgare. Però...
Ma
del libro in sé non sto parlando affatto. Pardon.
Dunque,
Come un respiro interrotto è uscito pochi mesi fa per
Sellerio, ma questo immagino
lo sappiate già.
Inizia
con Matteo, che parla del suo primo incontro con Sole. È una
cantante che gli presenta il fratello la sera stessa in cui si
trovano a suonare in un locale di Roma. Matteo ha l'orecchio
assoluto, suona il contrabbasso, gioca con la voce di Sole, che è meravigliosa fino quasi all'ipnosi. Il loro è
un legame che scorre per tutto il libro, indissolubile fino
all'arrivo della prova contraria, che è il tempo.
La
narrazione è discontinua, i punti di vista cambiano da un capitolo
all'altro, variando dalla terza persona di un narratore onnisciente
alla prima persona di Sole e di Matteo. La storia dei personaggi –
mi viene strano chiamarli 'personaggi', li sento respirare come
fossero vivi, in quello spazio minuscolo tra la pagina e le parole
stampate – viene stiracchiata lungo gli anni '70 e '80, poi rivista
più o meno dai giorni nostri. Parlando di Sole non si parla soltanto
di Sole, ma anche della sua meravigliosa famiglia. Non 'meravigliosa'
nel senso disneyano del termine, beninteso, ma nel senso che è
composta da tanti piccoli personaggi potenti. Lo zio 'zapatero', che
non parla con la voce, ma calando con forza il martello sulle scarpe
che ripara, soprattutto per i morti. Il fratello Tommaso, con quella
straziante ferocia da animale ferito. La debolezza del padre, la
dolcezza della madre, i nonni con le loro storie e le migrazioni. E
con Matteo conosciamo anche il fratello Lorenzo, uno scorcio di
rapporto col padre, un angolo di zio... è un libro
straordinariamente completo e sfaccettato.
Dicevo,
gli anni '70-'80, vissuti da Sole e Matteo e tutti gli amici che, per
lo spazio di un capitolo, gravitano loro attorno. Attorno a Sole,
soprattutto.
Le
lotte per la casa, l'abitudine di chiamarsi 'compagni', le
discussioni su come si sarebbe potuti arrivare alla giustizia
sociale, chi va in India e poi torna, chi raggiunge i propri ideali
nel Sud America e non torna più. I concerti, Sole che splende,
manifestazioni, le rese.
Leggendo
non mi ero resa conto immediatamente di quanto volesse raccontarmi
Stassi, di quale fosse il perno su cui avrebbe fatto roteare il
romanzo. Accanto a Sole, quella generazione che ormai mi risulta
incomprensibile, più lontana del Medioevo. È quasi impossibile
credere in persone che credono. Che agiscono senza mettere i 'ma', i
'forse' e soprattutto i 'non conviene' tra ideali e azione. Siamo
cinici, noi. E vigliacchi. Non riusciamo neanche a concepire di poter
avere un reale effetto sul mondo, e ci spogliamo di armi e di
linguaggio. L'azione improntata al disturbo è diventata quasi
terroristica, poco importa se è l'unico modo di attirare
l'attenzione. Rimango basita ai palmi verso l'alto di chi dice che
'tanto non cambierà niente', quando è quest'inerzia il primo motore
della stasi.
Ma
è a questo che sono abituata ad assistere, quindi la generazione
speranzosa di cui mi parla Stassi mi risulta così strana e
fantastica, manco fossero elfi tolkeniani.
Questa
recensione è lunghissima, chiedo venia.
Rubo
ancora un paio di righe perché non posso non parlare della bellezza
di questo libro. Non della trama, o dei personaggi, ma della
scrittura, del nudo stile. È bello, caloroso, sussurrante e
inclusivo. Ci si sente avvinti dalle singole frasi, ma non ci si
perde. Sapete, quando uno ha una tale padronanza del linguaggio da
riuscire a scrivere in un modo bello che non sia anche confusionario
o onanistico. Solo 'bello'. Però è un 'bello' enorme.
… quindi
beh, certo che lo consiglio. Senza meno.
E
se avete consigli sulla chiacchierata con Stassi, vi scongiuro di
scrivermeli. Che in mezzo alla trepidante attesa c'è un tantinello
di terrore.