È
un po' che mi girella in testa quest'argomento e, diciamocelo, anche
se non è proprio il momento più propizio per un corretto
funzionamento di rotelle cerebrali, ho voglia di parlarne adesso. Un
po' perché temo che altrimenti finirà per scivolarmi tra le dita,
fino ai più remoti angoli della memoria dove non riuscirò più a
raggiungerlo, un po' perché... beh, se anche dovesse uscire una
boiata di post – e le probabilità sono molto alte – potrò
considerarlo un punto di partenza per rifletterci sopra più avanti.
No?
Dunque,
un paio di giorni fa ho letto Donne eccellenti di Barbara
Pym, edito da Astoria. Un romanzo gradevole, estremamente
inglese, narrato in prima persona da una cosiddetta 'donna
eccellente', ovvero una proto-zitella riservata, educatissima,
religiosa e praticante. Ambientato all'inizio del secondo dopoguerra,
tono leggero, un po' mesto e appena ironico. Non un capolavoro, però
una di quelle letture che ogni tanto mi ci vogliono. Soprattutto se
sto preparando l'esame di statistica.
Ora,
qualcosa dentro di me un po' stride e si dibatte, quando legge questo
tipo di libri. E non nego un certo fastidio anche quando leggo la mia
adorata Georgette Heyer. Si tratta di libri rosellini, in cui
i rapporti tra le persone sono visti in un certo modo, in cui un
certo comportamento è giudicato in un altro modo, in cui è normale
che la donna venga giudicata-guidata-istruita ad ogni passo (per
quanto riguarda la Heyer, con un sacco di eccezioni, effettivamente)
e in cui il matrimonio è visto come coronamento assoluto nella vita
di una donna. Sono libri scritti da donne un bel po' di decenni fa e
non posso dire che la loro prospettiva fosse maschilista, anzi. Non
si può negare che denuncino, seppure un po' in sordina, un mondo in
cui l'intelletto femminile è soffocato e mai riconosciuto, eppure
c'è sempre un certo giudizio verso un certo tipo di comportamento,
nei loro libri, aspetti caratteriali che oggi vedremmo anche con
favore o con simpatia vengono condannati.
Ora,
dove voglio andare a parare? Ma soprattutto, riuscirò almeno a
prendere la mira?
Credo
che da ogni storia emerga, volente o nolente, la visione del mondo
dell'autore. La sua idea dei rapporti tra le persone, tra le classi
sociali, le dinamiche delle coppie. Emerge cosa hanno più caro, è
facile intuire quali siano i temi che l'autore ha cari. Credo che
tanti confondano questa visione del mondo personale con la cosiddetta
'morale'. Ma, secondo me, la morale è da cercare solo nelle favole
esplicitamente educative, non nelle storie scritte col semplice
intento di scrivere una storia.
Mi
viene da pensare a Stephenie Meyer e a tutte le critiche che
le sono state rivolte per via della storia tra Bella e Edward. E,
siamo seri, anch'io trovo che le dinamiche tra i due siano
orrorifiche, ma non per questo mi è dato di giudicare la Meyer come
una specie di volontaria diseducatrice. È mormona, ha un certo tipo
di idee sulla famiglia, sulla religione, sui rapporti di coppia e
questo fa parte dei suoi sacrosanti diritti. Non si fa caso al
messaggio insito nella propria visione del mondo, quando si scrive.
Almeno credo.
Che
poi ne approfitto per consigliare a chiunque di leggere The Host,
a me era piaciuto un sacco. Ma un sacco del tipo 'ho ospiti in casa,
quindi passerò la nottata in bianco a leggere chiusa in bagno,
perché devo finirlo assolutamente prima che si sveglino'.
Ad
ogni modo.
Vado
avanti. Ogni storia è portatrice di un messaggio che deriva
direttamente dalla visione del mondo dell'autore e dalle tematiche
che questo, avendole care, tratta nella propria opera. Spero che la
cosa abbia senso anche per voi.
Ci
sono opere che non riesco a leggere. Che mi infastidiscono in un
tempo davvero breve e di cui l'Italia, specialmente il cinema, è
piena. Sono quelle in cui si parte dalla visione del mondo o dal
messaggio per poi svilupparvi attorno una storia.
Ad
esempio, sono un acclamato regista che vuole dipingere la vacuità
dell'ambiente intellettuale. Girerò un film improntato su
quell'ambiente, avendo ben chiaro quello che voglio dire, ma non
dando abbastanza importanza alla storia. Infilerò il mio messaggio,
che è quello che ho davvero a cuore, giù per le gole degli
spettatori. Non lascerò che si infiltri pian piano nei loro occhi
durante la visione, non glielo lascerò sorbire lentamente in modo
che possa decantare e poi crescere dentro di loro. No. Un messaggione
maiuscolo, gridato, palese e, a mio avviso, fastidioso. Fin dalle
prime inquadrature.
Nel caso non si fosse capito, mi riferivo a La grande bellezza di Sorrentino. Ho resistito qualcosa come venticinque minuti-mezzora. So che
rischio di tirarmi addosso una valanga di 'checcacchiodicignorante' e ammetto che in fatto di cinema, ignorante lo sono eccome. Chi mi viene a
parlare di inquadrature, citazioni e fotografia avrà da me uno
sguardo confuso e la volenterosa attenzione di chi davvero vorrebbe capire quello che si sta dicendo ma ha nel cervello la scimmietta di Homer. Però c'è una
cosa di cui capisco e che del cinema è parte integrante, ed è la
narrazione. E posso dire che una narrazione così esplicita nel lanciare il suo
messaggio mi risulta goffa, volgare, ingenua.
Parliamo
di libri, via.
Acab
di Carlo Bonini, edito da Einaudi. Impolverato sul mio
comodino, il segnalibro incastrato da mesi a pagina 107. La storia
è... qual è la storia? I personaggi si confondono, è pieno di
messaggi sui forum della polizia e di riflessioni pompose. La storia
è il messaggio. La storia è inconsistente, il messaggio l'ha
inglobata. È palese come l'autore sia partito dal messaggio che
voleva dare e non dalla storia. Scelta che, si sarà capito, aborro.
Poi
ci sono libri come I Melrose di Edward St. Aubyn, o Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve di Jonas
Jonasson. Storie dalle quali ci si può figurare una persona che
la pensa in un certo modo, che vede il mondo in un certo modo.
Leggero a allegro Jonasson, involontariamente cinico e
sensibile St. Aubyn. Ma non c'è una vera e propria morale,
quella appartiene alle favole per bambini. E neanche a tutte.
La
morale non è necessaria, non è parte integrante della storia, è
una concezione errata di quello che l'autore, volente o nolente,
lascia scivolare nella storia in quanto è la persona che è, ama
quello che ama, e crede in quello che crede. Sappiamo che tipo di
persona è Woody Allen, conosciamo le sue ossessioni, le sue
posizioni politiche. Possiamo dire lo stesso di Nanni Moretti,
ma se penso ad Habemus Papam, non mi viene da pensare che sia
partito dal contrasto tra umano e divino o dall'umano che dopotutto
rimane umano. Piuttosto mi immagino un Moretti che a un certo punto
alza lo sguardo, e rimane immobile per qualche secondo, come
folgorato, col bicchiere a mezz'aria, mentre un 'E se...?' nella sua
mente si trasforma in una proto-storia. Che conterrà tutto il resto.
E
a rileggere quello che ho scritto direi che mi sono lasciata
nuovamente andare a un cumulo di banalità. Me ne rendo conto.
Eppure
non è così difficile imbattersi in film e libri – quasi sempre italiani –
che se privati del messaggio non hanno nulla, la cui storia continua
a girare attorno a qualcosa che si è già capito nei primi cinque
minuti di lettura/visione. Forse dipende dal modo in cui studiamo
italiano fin dalle medie, dal 'che cosa voleva dire qui
Dante/Manzoni?'.
Come se fosse quella la cosa più importante.
Voi cosa ne pensate? Da dove si dovrebbe partire, dal messaggio o dalla storia? E dà fastidio solo a me un messaggio esplicitato?