Il
centenario che saltò dalla finestra e scomparve di Jonas Jonasson –
traduzione di Margherita Podestà Heir – Bompiani, 2011
Questo
libro è uno di quelli di cui senti parlare così spesso e così bene
che finisci per non leggerlo mai. Rimandi, ti getti su altri libri,
perché tanto di questo prima o poi arriverà sicuramente il turno.
Io l'ho ricevuto come gradito regalo nella calza della Befana,
infatti.
Dunque,
la trama ormai è stra-nota, ma qualcosa dovrò pure scrivere. C'è
questo Allan Karlsson, residente in un centro di riposo per anziani.
È il giorno del suo centesimo compleanno e le autorità locali si
sono riversate nel centro per festeggiarlo. Allan, però, non ha la
minima intenzione di festeggiare il proprio compleanno in quel modo,
quindi, come da titolo, scende dalla finestra e se ne va. Raggiunge
la stazione degli autobus, dove un giovane gli ingiunge
maleducatamente di tenere d'occhio la sua valigia mentre va in bagno.
Solo che arriva quasi subito l'autobus di Allan, il quale decide, un
po' perché voleva allontanarsi il più possibile dal centro, e un
po' perché il giovane era stato simpatico come sabbia nel costume
da bagno, di portarsi via la valigia. La quale, si renderà conto, è
piena di soldi. Ma piena piena piena.
E
qui partono le gioconde peripezie di Allan e dei bizzarri figuri che
poco a poco si ammucchiano al suo fianco. Tipo una calamita che
attira disadattati. Capitoli sul presente che si alternano a capitoli
sul passato di Allan, ordinati cronologicamente. Pare che Allan abbia
avuto una parte importante in un sacco di vicende storiche,
dall'invenzione della bomba atomica fino alla salita al potere di
Franco, poi ci sono Mao e Stalin e Truman e un sacco di gente
storicamente significativa.
Il
che un po' mi ha infastidita, perché Allan a ben vedere è un po'
ributtante, visto che 'basta che mi dan da bere e mi piego come un
elastico fuscello', ma vabé.
Quindi!
Lettura lieta e divertente, molto poco realistica, a tratti un po'
stridente, ma se si entra nello spirito va bene così. È
straordinariamente poco volgare, tra l'altro, e le scene di violenza
sono molto smorzate, narrate con una leggerezza e una distanza che le
rendono innocue. Vedete voi se è un pregio o un difetto.
… io
volevo i miei scalpi.
Il
soccombente di Thomas Bernhard – traduzione di Renata Colorni –
Adelphi, 1985
Avevo
voglia di un libro che parlasse di musica classica. O i cui
personaggi amassero la musica classica. In realtà ultimamente mi è
anche venuta voglia di studiare la storia della musica, che la
ascolto come fosse un intruglio in cui stili, epoche e compositori si
confondono e mescolano senza alcun criterio.
Dunque,
necessitavo consigli su cosa leggere, ho chiesto alla Lettrice
Rampante (tanto per cambiare) ed ella ha riproposto la domanda sulla
sua pagina Fb, ove orde di lettori hanno espresso i loro graditi
consigli. Il libro più consigliato era questo, e giustamente sono
corsa a prendermelo.
E...
non lo so. Non posso dire che sia un brutto libro, ma men che meno
posso definirlo gradevole. Certo, sicuramente l'autore è riuscito
nel proprio intento, ma mi ha anche riproposto il classico dubbio
libro-esistenziale. Ovvero fino a che punto si tratta di stile, e
quando inizia lo sgretolamento di testicoli?
Ma
lasciamo stare.
Questa
è la storia narrata in prima persona, in un ininterrotto flusso di
pensiero, di un uomo che ha studiato piano dal celebre Horowitz,
insieme a Glenn Gould e a Max Wertheimer. Bernhard ha giocato con la
storia a proprio piacimento, variando le circostanze della morte e le
condizioni di vita di entrambi. A meno che non si tratti di un altro
Wertheimer, ma dubito. Comunque correggetemi se sbaglio.
Il
protagonista – il nome è ignoto – e Wertheimer (il Soccombente,
come è stato soprannominato da Gould) sono rimasti schiacciati
dall'ascolto delle Variazioni Goldberg suonate da Gould, e poco a
poco si allontanano dal pianoforte. Questa è, in soldoni, la storia.
Il protagonista racconta soprattutto di Wertheimer, di come si fosse
lasciato scorrere, di quanto fosse debole, di come il suo suicidio
fosse ovvio da decenni. Di Gould tutto sommato non parla molto, è
quasi un simulacro volto a rappresentare la perfezione
irraggiungibile. È presente soprattutto nella frustrazione di
Wertheimer.
Ora,
consiglierei questo libro? È interessante, in certi punti prende
anche. Ma è pesante, questo sì. Volendo riproporre il filo delle
riflessioni umane, l'autore salta da un ricordo all'altro, ripete
molte volte la stessa frase e lo stesso concetto e... non lo so.
Immagino che rimanere fedeli al proprio stile sia lodevole, ma avrei
tanto preferito che avesse smussato. Non amo quando l'autore non tiene conto dell'interlocutore, né nella musica né nella
lettura.
Quindi...
un po' di musica, tanta frustrazione, rimpianti, digressioni. Vedete voi. Non è una lettura per tutti i giorni.