**Questa recensione (che devo riconoscere essere scritta malissimo) è stata scritta nel lontano 2013, quando ancora non esisteva Netflix e Walter Tevis in Italia lo calcolavano in pochissimi. Sicuramente siete qui dopo aver visto la serie su Netflix, e in questo caso vi avverto: il romanzo è meglio, così tante volte meglio che bisogna cambiare ordine di valori, passare da Celsius a Fahrenheit, ampliare il significato di "meglio" abbracciandone il concetto con tutta la Torre di Babele. Qualunque cosa abbiate pensato della serie - che ho abbandonato poco dopo l'arrivo di Beth alle superiori perché mi sono bastate due scene-cafonata alla Mean Girls - leggete il romanzo. Leggetelo e adoratelo.**
Ho
appena finito di leggere La regina degli scacchi di Walter
Tevis. Minimum Fax, 2007. Traduzione, molto buona,
di Angelica Cecchi. Ho appena finito di leggerlo ed è
una sensazione meravigliosa. Il cervello che galleggia in un tiepido
oceano lattiginoso, le parole per descrivere il libro ancora in fase
di svezzamento, il volto indeciso sulle espressioni. Non ne capitano spesso, di letture così. E ciò è male, molto male.
Dunque.
A
otto anni Beth rimane orfana e viene spedita in un orfanotrofio, in
cui facciamo la poco gradita conoscenza del sistema americano, quello
che somministra tranquillanti ai bambini per farli stare buoni. Beth è
tranquilla, intelligente, acuta. Ha evidenti problemi di
socializzazione, non cerca mai di interagire spontaneamente. Le si
avvicina di tanto in tanto la sua compagna di stanza, Jolene, una
ragazzina nera più grande, alta e brava negli sport. In pratica,
Beth non ha nulla, finché un giorno non si mette ad osservare, nel
seminterrato, il signor Shaibel – il custode – che gioca a
scacchi da solo. Gli chiede ripetutamente di insegnarle e lui poco a
poco si schiude, anche se non certo dal punto di vista umano,
accettando di giocare con lei qualche partita e poi regalandole un
complicato manuale. Beth ha una memoria fotografica perfetta e smette
perfino di aver bisogno di guardare la scacchiera per giocare. Le
rimane fissa in testa, coi suoi pezzi fermi qua e là per le varie
case, in attesa della sua mossa. Qualche tempo dopo, viene adottata.
Non
vorrei andare troppo avanti, ma mi è difficile decidere quando
fermarmi. C'è la scuola, c'è la signora Wheatley – qualche volta,
'mamma' – e ci sono gli scacchi. Soprattutto, gli scacchi. I
tornei, lo studio, le – poche – sconfitte e le infinite vittorie.
Poi c'è la dipendenza da quella sensazione di beata perdizione che
solo i tranquillanti e l'alcol possono dare. E poi gli scacchi, e
ancora gli scacchi. L'ossessione della sua vita.
Ecco,
io in un certo senso sento quasi di capire Beth. Non che io sia mai
stata un genio, anzi, so benissimo che tutto ciò che so viene dal
tempo e non da un qualche misterioso talento. Però leggendo sentivo
il bisogno che Beth ha degli scacchi riflettersi nel mio attaccamento
ai libri e a tutto ciò che li riguarda. Così come Beth studia le
vecchie partite dei Maestri, anche a me capita di perdermi nelle
frasi che mi trovo sotto gli occhi, chiedendomi perché le parole
abbiano finito per disporsi in quella particolare forma. Cosa c'è
dietro quella forma sintattica, quali vocaboli sono stati scartati
prima che la frase diventasse completa? Cos'ha pensato lo scrittore,
mettendo la parola fine?
Non
so. Mi chiedo come vivano le persone senza ossessioni. Quale sia la
loro benzina, da dove prendano forza quando si trovano in difficoltà.
Una
cosa che ho adorato di questo libro – scritto con ineffabile
abilità in terza persona – è il suo aderire interamente alla
regola dello 'Show don't tell'. Ma non in maniera forzata né asettica,
bensì con una certa naturalezza. Mostrandoci davvero la scena e lasciandoci liberi di trarne le dovute considerazioni. I caratteri dei personaggi, poi,
sono perfetti. O meglio, sono imperfetti. Sono persone reali, quelle
che ci troviamo davanti. Benny, la signora Wheatley, Jolene e
ovviamente la stessa Beth. I suoi attacchi di rabbia soffocati quando
si trova in difficoltà durante le partite, la sua insonnia, il suo
perdersi e... e beh, Beth e basta.
Leggetelo.
Punto. Non riesco neanche a trovare le parole giuste per descrivere
l'intensità di questo libro...