Beh, oggi mi sono
svegliata con un sorriso che quasi non bastava tutta la faccia per
contenerlo. È successo qualcosa di bello? No, non direi. Ogni tanto
mi viene da pensare che potrei avere perdite casuali di serotonina,
cosa che sinceramente non sarebbe affatto male. Oh, e vi ricordo che
oggi è la Festa del Papà! Io al mio ho preso La banda degli
Invisibili di Fabio Bartolomei, che sono certa diventerà
uno dei suoi scrittori preferiti. E sì, lo dico senza timore di
essere scoperta, perché non ha il computer.
Ma via, bando alle
ciance!
Un matrimonio inglese
di Frances Hodgson Burnett – traduzione di Clementina Liuzzi e
Paola Vallerga – Astoria Edizioni, 2010
Tanto
per cambiare, l'idea che mi ero fatta di questo libro non corrisponde
minimamente al libro stesso. Ma per niente. Prendendolo mi ero detta che, massì,
dovevo pur provare un libro di una casa editrice di cui mi era stato
parlato tanto bene e tanto spesso, idem per l'autrice. Il titolo
effettivamente è un po' fuorviante, anche se non si può certo dire
ingannevole. Però mi ero fatta l'idea di un'allegra commediola
all'inglese, un po' di frizzante ironia, sapete, un po' alla
Georgette Heyer.
E
poi ho scoperto che stavo leggendo un libro pregno di argomenti
dolorosi come la violenza domestica, scritto da una mano forte e
disillusa, che conosce bene gli ambienti di cui parla e i loro
costumi. L'autrice ha infatti vissuto prima in America e poi in
Inghilterra e i suoi occhi hanno potuto osservare quest'ultimo
decantatissimo paese senza il filtro dell'educazione britannica.
È
un libro molto 'America, fuck yeah'. E anche uno dei libri più
femministi che io abbia mai letto. Ed è stato scritto nel 1907, eh.
La
trama, va bene. C'è questa ricchissima e facoltosissima famiglia
americana, i Vanderpoel. Due figlie, Rosalie e Bettina, la prima
maggiore della seconda di – mi pare – dodici anni. Giovanissima,
adorabile ma non esattamente 'brillante', Rosalie si sposa con un
nobiluomo inglese e si trasferisce con lui in Inghilterra. Lui, Sir
Nigel, mirava soltanto al suo denaro e non appena si allontanano
dalle coste americane, diventa evidente quanto la disprezzi e la odi.
Ben presto la costringe a vivere come una reclusa nella tenuta di
famiglia e a tagliare i rapporti con i genitori e la
sorella minore, che allora aveva soltanto otto anni.
Bettina
passa più di dieci anni a sognare di riprendersi la sorella e, alla
fine, si deciderà ad andare in Inghilterra a riprendersela, dove
scoprirà che il peggio di quanto temeva è effettivamente avvenuto.
E così via.
È
un romanzo lungo, scritto splendidamente e davvero ben tradotto. I
personaggi sono ben delineati, ognuno agisce secondo la propria
caratterizzazione e non per far proseguire la storia e... e beh, mi è
piaciuto un sacco. Quanto la Burnett rivela della società inglese
stride contro l'affetto e l'ammirazione che provo per quel luogo che,
nella mia testa, è praticamente ammantato di un'aura sacra e di fumi
di tè. Non posso fare altro che consigliarlo.
The Help di Kathryn
Stockett – traduzione di Adriana Colombo e Paola Frezza Pavese –
Mondadori, 2010
Forse parlare di questo libro ha un che di ridondante. È
famosissimo, conosciutissimo ed è universalmente noto che merita
tutti gli elogi che gli sono stati tributati. Però voglio parlarne
lo stesso, perché non mi va di lasciare cadere nel nulla l'affetto che tuttora
sento per i suoi personaggi. O almeno, per parte di essi.
Ambientato nel Mississipi, primi anni '60. Tre narratrici che si
alternano, due domestiche di colore – Minny e Aibileen – e una
ragazza bianca di buona famiglia, piena di dubbi e domande e
aspirazioni, Eugenia detta Skeeter. Aibileen lavora presso la
famiglia di un'amica di Skeeter, amica anche della madre dell'anziana
madre di Hilly, presso cui lavora Minnie. Aibileen adora i bambini,
adora prendersi cura di loro, giocare con loro, nutrirli e
consolarli. Tuttavia detesta vederli crescere, perché sa che prima o
poi arriverà il momento in cui quegli occhietti una volta ingenui
noteranno il diverso colore della sua pelle. E l'innocenza si
tramuterà in razzismo. Minnie è una testa calda e, pur essendo
un'ottima cuoca, le sue rispostacce le costano spesso il posto di
lavoro. Il marito è un violento e a casa ha un piccolo esercito di
bambini. Skeeter ricorda con immenso affetto la domestica di colore
che le ha fatto da madre e di cui non ha più saputo niente da quando
è tornata dall'università. In lei i dubbi sulla giustizia sociale
si fanno strada con sempre maggiore violenza e una fortuita occasione
presso una redattrice newyorkese le farà brillare in testa un'idea
che coinvolgerà le due domestiche di poc'anzi.
È un libro scorrevole, piacevole, che sembra scritto con leggerezza,
nonostante le tematiche dolorose. Qua e là vengono buttati quasi per
caso dei piccoli pezzetti di assoluta disumanità, eppure non è su
questi che ci si sofferma. Si va avanti, quasi scivolando sul
ghiaccio.
Come mille altre prima di me, lo consiglio ampiamente. È un
capolavoro, al punto che mi è difficile aggiungere altro. Quindi la
chiudo qui.