I fiumi di Londra di
Ben Aaronovitch – traduzione di Silvia Quadrelli, Fanucci Editore
2012
Questo
libro l'avevo inizialmente piantato a metà. La trama è
interessante, l'intreccio un po' forzato ma tutto sommato credibile, però lo trovavo
davvero grezzo come narrazione. Ad esempio, avete presente la regola del 'Show,
don't tell'? Significa che bisognerebbe mostrare un'azione, piuttosto
che raccontarla. Cioè, lasciare che la scena fiorisca nella mente
del lettore tramite immagini, piuttosto che spiegarla per filo e per
segno. Come tutte le regole, specie quelle di scrittura, non è da
interpretare rigidamente. Secondo me, se uno sa descrivere bene, che
descriva pure. Però nel caso di Aaronovitch, ecco, avrei preferito
avesse 'mostrato' un po' di più. Raccontare perfino dei dialoghi mi
è parso un po' troppo. Peccato, perché non fosse stato per questo
aspetto, la lettura sarebbe stata davvero piacevole. Ad ogni modo,
avevo abbandonato il libro a metà, ma ho deciso di riprenderlo in
mano esortata da un video di Federica Frezza – ringrazio sentitamente
coloro che me l'hanno consigliata – secondo la quale i seguiti sono
assai più riusciti. E beh, sì, non è male. Però poteva essere
meglio. Molto meglio. Diciamo che in questo caso bacchetterei l'editor
piuttosto che l'autore.
La
trama, in soldoni. Londra. Una serie di bizzarri omicidi che
finiscono a facce spaccate. Un protagonista poliziotto – narrato in
prima persona – che dialoga con un fantasma sulla scena del
crimine. Un poliziotto di grado superiore che lo rintraccia e decide
di prenderlo come apprendista-mago. Le personificazioni del Tamigi.
Ecco,
la trama c'è. È interessante, è colorata, studiata. Quello che
manca è una solida struttura. La magia si percepisce appena, anche
se è presente. Le ore di studio del protagonista vengono liquidate
in poche righe, così come le sue intuizioni non vengono mai
veramente sviscerate. È un buon materiale, ma grezzo. Peccato.
Appunto
sulla traduzione. O meglio, sull'adattamento. È zeppo di errori, più
che altro congiuntivi o refusi. Ma non mi è parso di notare veri e
propri errori di traduzione. E lo dico in difesa della traduttrice
che sulla pagina di Anobii protesta veementemente. Ora, io non so
bene come funzioni una traduzione. Immagino che al traduttore stia il
senso e poi all'editor tocchi l'arduo compito di adattare
stilisticamente il testo. Immagino, eh. Comunque linko qui la pagina su
Anobii.
Dio odia il Giappone
di Douglas Coupland – traduzione di Anna Mioni, illustrazioni di
Michael Howatson – Isbn Edizioni, 2012
Giusto
che si parlava di traduzioni, complimenti ad Anna Mioni. O all'editor
della Isbn. O a entrambi.
Narrato
in prima persona da Hiro, un giapponese classe 1975 che inizia a
raccontare partendo da Kimiko, Rieko e Kaoru, le tre ragazze più
carine della sua classe alle superiori che si sono converite alla
religione mormone. Lo shock e la rabbia di Hiro, nel vederle perse,
distanti, diverse da come le ricordava. Il suo crescere in un'epoca
di stacco, la spaccatura tra la sua generazione e quella dei
genitori, la stordente mancanza di valori, l'amicizia con Tetsu...
Coupland
non è giapponese, ma ha vissuto in Giappone. Quindi si è trovato a
scrivere del Giappone e dei gaijin dal punto di vista di un
giapponese, pur essendo lui stesso un gaijin. Uno straniero. Ora, non
so se mi sia mai capitato di parlarne qui, ma fino a un paio di anni
fa ero innamorata del Giappone. Alle elementari sfogliavo fino alla
nausea i miei manga alla ricerca di parole giapponesi da aggiungere
ad una specie di dizionario che mi ero fatta da sola. Erano perlopiù
insulti, ma vabé. Ho studiato giapponese all'università, per quanto
poi sia stata quella la materia che mi ha convinta a cambiare facoltà
– oddio, più che la materia, il professore. Maledetto simil-Voldemort. Lui e la
mia mancanza di intelligenza o forza di volontà o carattere, o
quello che è.
Dicevo,
adoravo il Giappone. Dopo l'intossicazione universitaria, sto
tornando poco a poco a volergli bene. Credo che se riuscissi ad
andarci, sarei una di quelle gaijin imbarazzanti che si entusiasmano
di fronte ai konbini, che vanno nei parchi a fare foto ai cosplayer,
che cercano di decifrare le scritte in metropolitana, che idolatrano
la più schifida ciotola di ramen. Che poi sì, sarebbe imbarazzante,
però personalmente credo che sia molto più divertente essere
l'allegra idiota derisa, piuttosto che il tizio cinico ai margini che
sghignazza. No?
Non so se avete notato, ma da qualche tempo ho
ricominciato mio malgrado a divagare. Pardon.
Dicevo,
Hiro ci racconta del suo tentativo di non omologarsi, della
confusione con cui si aggira per Tokyo, di quanto il Giappone stesso
stia uscendo matto. Un mondo che lui non capisce, che i giapponesi
non capiscono, che nessuno capisce. Nessun valore, nessun appiglio,
nessuna salvezza.
Scritto
bene, tradotto bene, narrato benissimo. Lo consiglio. Molto. Se poi
siete nippofili, lo consiglio doppiamente.