Ah, il dolce riposo delle
visite a casa di madre. Svegliarsi naturalmente alle dieci, fare
colazione davanti a programmi imbarazzanti, fare due coccole
distratte ai gatti... oh, e per inciso domani compio 24 anni. Ancora
366 giorni al mio primo quarto di secolo. Yeeee! Ma non scrivo per questo.
Voglio dire, probabilmente lo farò, visto che ogni anno manca poco
che metta pure stendardi sulla porta e manifesti in giro per
auto-celebrarmi, ma tenterò di dare a questo post un'impronta un
minimo più 'utile', ecco. Tanto per cominciare annuncio che, con rischi indicibili e traversie innumerevoli (ovvero il formato audio che funzionava solo sul computer di madre, la cui tastiera ha smesso di funzionare) ho
ultimato la trascrizione dell'intervista al libraio del mese scorso e che quindi dovrei pubblicarla qui in tempi brevi. Finalmente.
Inoltre... beh, continuo
a leggere. Tanto per cambiare.
Cercando
Alaska – John Green – traduzione di Lia Celi
Anche se ho qualche
dubbio in merito, mi pare che la prima edizione, risalente al 2006 in
Italia, sia della Rizzoli e che sia in seguito passata ai Superpocket nel
2009. conoscevo già quest'autore, perché bazzico parecchi canali
Youtube inglesi e americani. John Green e il fratello Hank formano
quel duo chiamato 'Vlogbrothers', due allegri nerd che anni fa
hanno deciso di dialogare tramite un proprio canale Youtube degli
argomenti più disparati. Se volete dare un'occhiata, basterà
cliccare sul link. Ad ogni modo, Cercando Alaska. Ricordo che,
ultimata la lettura, ero stata piuttosto combattuta sull'eterno
dilemma 'tre stelline/quattro stelline' (alla fine ho optato per le
quattro, comunque). Perché la prima parte l'ho trovata appena da
tre, mentre la seconda raggiungeva e superava le quattro. La storia ci è
narrata in prima persona dal protagonista Miles, sedici anni. Un
ragazzino che non ha mai avuto amici e che decide di trasferirsi a
studiare in un collegio in Alabama. La prima parte è tutta
sull'amicizia che trova in Chip detto il Colonnello, il suo compagno
di stanza e la sua cotta per Alaska. Ci sono dialoghi un po' così,
poco credibili. E per me la credibilità è molto importante. Ci sono
parti noiosette, che io sinceramente avrei sfoltito con un'ascia. Le
prime sbronze, le prime sigarette, quella trasmutazione unticcia da
bambino a persona adulta che chiamiamo 'adolescenza'. Poi la seconda
parte, conseguente ad una tragedia e tutti i dubbi che porta con sé.
I litigi, l'insonnia, le domande. Questa parte è molto più viva e
coinvolgente della prima e, secondo me, scritta meglio. Forse perché
Miles si trova a maturare di colpo e John riesce a calarsi meglio nel
suo personaggio, una volta privato di quel velo d'infanzia.
Una cosa che ho gradito
moltissimo sono state le descrizioni dell'atmosfera durante certe
scene. Magari ve le ricordate anche voi, forse vi strapperebbero lo
stesso sorrisetto che hanno strappato a me. Il ricordo di quella
sensazione di assoluta leggerezza, quella sicurezza comoda e latente,
quel 'Non potrà mai succederci niente', prima che quel 'niente' chiamato realtà si faccia vivo e scombini tutti i piani.
Quell'odore di alcol e patatine, con una vena di vomito che viene
da un mucchio di foglie morte poco lontano. Gli occhi persi nel crepitare di un
falò, il silenzio che circonda un gruppo di amici, un'incrollabile e
commovente fiducia nel futuro. Ecco, John rende perfettamente
quell'atmosfera.
Però devo dire che mi ha
stupito leggere ovunque recensioni uber-entusiastiche. Sarà che io
pretendo un grado di plausibilità e realismo più alto, ma nella
prima parte personaggi, dialoghi e reazioni non erano esattamente
'credibili'. Tra tutti Alaska, che fosse stato per me avrei preso a
ceffoni fin dall'inizio. Ma questione di opinioni, suppongo.
Fate a New York –
Martin Millar – traduzione di Lucia Olivieri
Ne avevo sentito molto
parlare e non sempre bene. Tra i miei vicini su Anobii c'è chi ha
dato una stella e chi ne ha date cinque. Io mi sono tenuta sulla
media, tre stelline. Diciamo che se dovessi valutare soltanto l'idea,
la fantasia e l'originalità dell'opera allora non basterebbero le
stelline. Però l'esposizione, la costruzione dei personaggi, la
credibilità nella successione delle vicende... beh. Va bene, lo so
che Millar è volutamente assurdo. Ma lo è anche Pratchett e a lui
riesco tranquillamente a credere. Leggendo Fate a New York ci
sono stati punti in cui mi dicevo 'Eh, e adesso arriva la marmotta
che incarta la cioccolata'. Troppe cose, per nulla plausibili e
soprattutto, TROPPO in fretta. Ogni scena ha la durata massima di una
pagina e mezzo-due. I personaggi principali, gli umani Dinnie e Kerry
e le fatine Morag e Heather, sono appena abbozzati. Le due fatine non
hanno nulla che le distingua l'una dall'altra. Sono praticamente
intercambiabili e somigliano eccessivamente a Vex e Kalix di Ragazze
Lupo – e quello è meraviglioso, ve lo consiglio
possentemente – e passano il loro tempo a sbronzarsi, prendere
decisioni stupide e creare problemi in giro. Fosse stato per me, le
avrei spiaccicate con un elenco telefonico. La trama, in soldoni:
alcune fate – tra cui Morag e Heather, che hanno combinato un
inenarrabile casino in Scozia – arrivano per errore a New York, non
ricordo se via nave o via aerea, in quanto si erano ubriacate
possentemente e addormentate tra bagagli incustoditi. Litigano e si
separano, Heather da Dinnie – un essere orrendamente stupido e
insopportabile, omofobo, menefreghista, uber-onanista, sporco e
puzzolente – e Morag da Kerry, che è una ragazza tanto dolce,
carina e simpatica con il morbo di Crohn. Ecco, attorno a loro
accadono così tante cose che non riesco ad andare oltre. Troppi
personaggi, troppe vicende. E ad un certo punto le coincidenze
arrivano veramente a dare fastidio. Non si può andare così oltre,
secondo me.
Comunque non posso dire
di non aver gradito la lettura, anzi. Mi ha divertita, mi ha
intrattenuta. Questo sì. Però è un peccato che nessuno abbia detto
a Millar 'Sei davvero sicuro di voler mettere anche questo? Come
pensi di spiegarlo?'.