Menzogna e Sortilegio di Elsa Morante

Io e la Morante abbiamo fatto amicizia l’anno scorso, quando mi si era affacciata alla mente l’idea di scrivere un articolo sul legame tra isole e letteratura – l’Isola che non c’è, l’Isola del tempo perso, l’Isola del dottor Moreau etc. Elsa Morante ha scritto L’isola di Arturo nel 1957, mi pareva brutto lasciarla fuori, ma non avrei mai pensato di gradire così la lettura. Dell’articolo non ne ho più fatto niente – vai a sapere perché – ma il romanzo l’ho adorato, ed è stato un ottimo primo incontro con Elsa. Elsa che altrimenti non l’avrei mai pescata in biblioteca, col suo nome altisonante. Morante. Moravia. Deledda. Nomi che sembrano portarsi addosso tutto il peso della letteratura – un peso che temi, leggendo, ti possa calare dritto sui testicoli.

(scusate la brutalità, ho dovuto leggere Canne al vento per l’università nel decennio scorso e non mi sono mai ripresa, io e Grazia non andremo mai d’accordo).

 


Per contro, Elsa è diventata una delle mie scrittrici italiane di riferimento. Una delle mie preferite. E quanto ho adorato la sua opera prima, Menzogna e Sortilegio, pure più di L’isola di Arturo. Uscito nel 1948, ha guadagnato alla Morante il Premio Viareggio e ha spalancato una finestra di comunicazione tra il grande romanzo italiano e la grande letteratura inglese. Che detto così, senza un’adeguata contestualizzazione, non vuol dire niente, quindi andiamo con ordine.

Son già due mesi che la mia madre adottiva, la mia sola amica e protettrice, è morta.

Menzogna e Sortilegio inizia così, con un incipit che ricorda vagamente quello di Lo straniero di Albert Camus, ugualmente mortifero, ma più freddo – “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. La voce narrante appartiene a Elisa, una ragazza appena rimasta orfana per la terza volta – e, come dire, ce ne vuole. Abitava da anni con la madre adottiva, una ricca cortigiana alla quale era legata da un forte senso di gratitudine e da un affetto ancora più forte, nonostante l’insuperabile incomunicabilità tra le due. Ma a parlarne troppo si fa spoiler, perché questo romanzo inizia dalla fine, ed Elisa all’inizio è soltanto una cornice narrativa, come non tarderà a spiegarci. Elisa spiegherà che è tutta sola nella casa che le ha lasciato la madre adottiva, e poi parlerà dei suoi fantasmi, di come le abbiano animato le stanze. Racconta di come la sua fantasia abbia sempre richiamato i suoi morti, perché potessero dare un senso alla propria fine, farle compagnia, ricamarle dietro un passato. I suoi morti sono i genitori, altri parenti, qualche comparsa. Tutti a raccontare una complessa, intricata, crudele storia: quella che ha portato alla fine alla morte di coloro che vi hanno preso parte – non ultimi, i genitori di Elisa.

Il contesto è l’Italia del sud all’inizio del ‘900. Dunque troviamo un certo modo di vivere la città e la campagna, un’incolmabile distanza tra ricchi e poveri; ma non è solo il contesto, l’ambientazione, a rimandare ai classici della letteratura inglese. È l’intensità. È la crudele consapevolezza di come agisce l’emozione sull’individuo che la sta provando. È l’ineluttabilità di un sentire precedente alla rivoluzione freudiana, in un tempo in cui l’essere umano ancora non sapeva di dover dubitare di se stesso, e viveva seguendo ciò che sentiva senza interrogarsi granché. È facile ritrovarci la Mary Ann Evans – alias George Eliot – di Middlemarch e Il mulino sulla Floss, o le grida disperate con cui Catherine e Heathcliff si chiamano da un mondo all’altro. Tutto quel sentire dannato, che i più fortunati possono ancora chiamare adolescenziale, che non ne hanno provati di simili nell’età adulta, quella sofferenza che non riesci ad arginare.

Dicevamo, prima della deviazione nel baratro. Elisa cerca di raccontare le vite dei genitori perché la loro unione acquisti un senso, e perché acquisti un senso la loro morte. Parte da lontano, prima ancora dei propri nonni. Spiega quali anime corrotte abbiano dato vita alla madre, e perché la sfortuna li abbia sempre infestati come un morbo – ma un morbo che si va a ricercare, come a volerlo stuzzicare finché non attacca. Finzioni, malintesi, un nonno disconosciuto da una famiglia nobile e facoltosa. Buona parte del romanzo racconta un passato dal quale Elisa era assente, eppure viene ricostruito nel dettaglio. Menzogna e Sortilegio è un atto meta-narrativo, perché Elisa è sempre consapevole della propria mistificazione, della portata della propria immaginazione, con cui va a riempire i buchi della memoria. Elisa cerca risposte e compagnia, e le cerca dentro di sé perché non ha dove altro cercarle. Ma come narratrice, riesce comunque a distaccarsi abbastanza da scomparire dalla pagina, da risolversi in quello che sembra un narratore esterno – ma onniscente e vocalico, pronto a dialogare col lettore, a metterlo in guardia, fargli oscuri pronostici. Non parla di sua madre come fosse sua madre, almeno non all’inizio, non quando sua madre è ancora una ragazzina. Sono tutti pienamente personaggi, liberi dalla costrizioni di ciò che Elisa sa che diventeranno, finché Elisa stessa non diventa testimone diretta di una storia disgraziata iniziata decenni prima della sua nascita. Una storia famigliare in cui si intrecciano più storie d’amore, tutte devastanti. Nessuno è innocente, tutti sono colpevoli, vittime da un lato e carnefici dall’altro. Il che, tutto sommato, è orrendamente realistico.

Lo stile è quello di Elsa, è ricco e fragrante, antiquato e leggerissimo, complesso e involuto e insieme scorrevolissimo. Elsa parla come sa parlare – quindi splendidamente – ma parla al lettore per farsi capire, e l’effetto è… come dire, qualcosa di perfettamente bello e perfettamente semplice. Detesto quando gli scrittori giocano a non farsi capire, quando confondono la sperimentazione con l’obliquità, quando è evidente che non gliene frega niente del lettore. Nell’arte si fa quel che si vuole – è sacrosanto – ma quel voler giocare tra sé e sé con le parole mi pare quasi onanistico, e non in senso buono. Certo, c’è caso e caso – mi viene da pensare a Michele Mari che davvero scrive per sé, ma lo fa in un modo tutto suo e particolare, come se avesse in mente se stesso lettore come lettore ideale, e volesse rendersi partecipe ogni volta di una bizzarria letteraria diversa.



Di Elsa mi sono un po’ innamorata, e tremo al pensiero dei pochi romanzi che mi mancano da leggere. C’è La storia, certo, e poi? Aracoeli – mi dice Wikipedia – e poi soltanto i racconti. Dovrei centellinare, ma so già che non lo farò. Dalla zona rossa, vedrò di prenotare ancora qualche libro in biblioteca; buon per me, nelle scorse settimane ho fatto provviste.