John Henry Festival di Colson Whitehead


Colson Whitehead (New York, 1969) è uno scrittore che di solito presento come bis-Pulitzer, visto che si è guadagnato il premio nel 2017 con La ferrovia sotterranea e nel 2020 con I ragazzi della Nickel. È afroamericano, ed è importante sottolinearlo, perché se la letteratura americana non manca di titoli che trattino la questione razziale, è necessario riconoscere l’importanza all’interno del discorso dell’autorappresentazione di una comunità che racconta se stessa. Ma ci tornerò più avanti, in un altro post – che probabilmente suonerà un po’ ampolloso e a tratti lapalissiano, e che comunque mi preme di scrivere.



John Henry Festival è un romanzo lungo e altamente polifonico, in cui i protagonisti si perdono in mezzo a una narrazione sfaccettata all’interno delle piccole pieghe della storia; se possiamo riconoscere la centralità fin dal titolo del Festival di John Henry, assistiamo all’allargamento della lente narrativa che si allontana dal qui ed ora per concentrarsi su personaggi che hanno vissuto decine, centinaia di anni prima. Poco fa scrivevo che i protagonisti “si perdono” in mezzo alla polifonia della narrazione, e questa considerazione non sta a significare che i protagonisti siano tralasciati o poco approfonditi, o che le loro storie non abbiano importanza, anzi. Il fatto è che ancora più protagonista dei protagonisti c’è tutto un contesto storico, sociale ed economico. E non è una visione statica descritta ossessivamente, ma una materia mobile e viva, che evolve e si sviluppa man mano che personaggi diversi – e quasi sempre in qualche modo disgraziati – la portano coerentemente avanti. Non è che J. e Pamela non siano importanti, o che non sia importante la loro partecipazione al Festival di John Henry; ma oltre ad essere portatori di un personale arco narrativo, sono tessere di una storia più grande.

Siamo nel 1996, e le Poste si preparano al lancio di una serie di francobolli dedicati agli eroi americani; tra questi John Henry, spaccapietre diventato una leggenda per essere morto battendo in una gara una scavatrice, convincendo le ferrovie a non investire nel macchinario. John Henry è un personaggio divisivo; orgoglio americano per la forza e la tenacia, simbolo dello sfruttamento per gli afroamericani sottopagati tra i sottopagati, manovalanza sommamente sacrificabile ai crolli delle gallerie. Il Ministero delle Poste festeggia una storia di cui non conosce tutti i significati, superficialmente, e collabora con Talcot  soprattutto con la vicina più grande, Hinton , la cittadina patria di John Henry – o almeno in cui si dice sia morto – per l’organizzazione della prima edizione del Festival.



Il Festival ha bisogno di qualcuno che lo racconti. Anche nel 1996 era chiaro che senza una copertura mediatica, un evento vale quanto un albero che cade in mezzo al nulla. Il comune di Talcot, grazie anche ai fondi statali, appalta la promozione del Festival a un’agenzia, e il Festival diventa meta di un gruppo di giornalisti, articolisti e copywriter freelance che campano più o meno disgraziatamente della produzione di contenuti vuoti. J è uno di questi freelance – insieme ad altri personaggi bizzarri come il Guercio e il Francesino. J arriva al Festival che è intorno al terzo mese di totale di sbafo; un evento al giorno per approvvigionarsi del catering, con seguente produzione di articoli in percentuale variabile. Lanci di cd, di prodotti, mostre d’arte, feste “a casa di”. Mangiare e vestirsi soltanto gratis con quello che gli arriva dagli uffici stampa. J ripercorre le orme di un vecchio sbafista – così si chiamano tra loro – la cui orbita è stata inclemente. E a questo punto neanche J. sta poi tanto bene.
Talcot è un paesino sperduto nel profondo del West Virginia – mountain mamaaaa take me hoooome contry roooad – che J. da nero del nord si immagina come un covo di sudisti nostalgici dei “bei tempi andati” in cui potevano possedere la sua gente.
Oltre a J. e a un pugno di già citati colleghi sbafisti ci sono Pamela, una donna il cui defunto padre era un collezionista ossessionato da John Henry, e altri attori che fanno parte di quello strano magma che mette insieme scrittori di contenuti e produttori, agenzie stampa, “creatori di eventi”. Il presente è racchiuso nella fotografia del Festival con tutte le strane creature che ospita e che l’hanno messo in moto.

Una delle ragioni per cui a tanti non è piaciuto American Gods di Neil Gaiman – che pure raccontava la strana mitologia dell’America del Nord – sono i continui intermezzi che raccontano un breve stralcio nell’esistenza di divinità rinchiuse nel secolare contemporaneo. Io personalmente ho adorato quegli intermezzi; il contesto raccontato da Gaiman è fatto di pluralità diversissime tra loro, più che sfaccettato. Capire il contesto era essenziale per capire la storia, e il contesto va arricchito. Colson Whitehead fa un po’ la stessa cosa. Siamo nel 1996 e poi siamo insieme agli strilloni che all’inizio del secolo scorso venivano assoldati dalle case musicali per urlare le canzoni ai concerti, per farle entrare in testa agli spettatori; siamo col blues man che ha registrato per primo la canzone popolare di John Henry; siamo con gli storici che sono scesi a Talcot dal nord a quarant’anni dalla morte di John Henry per intervistare i testimoni e verificare se si tratti di una leggenda o di una storia vera.

Ci sono anche punti in cui la lente si allontana dal singolo e passa tra la folla, registrando in un rapido guizzo gli sbalzi dell’uno e dell’altro passante, la narrazione diventa un concerto affollato di strumenti, un correre di umori e impressioni, un ricamo in cui ogni punto è una persona – anzi, è quel singolo attimo nella vita di quella persona. E anche questi sono momenti narrativi bellissimi – mi hanno ricordato un po’ il finale di A me puoi dirlo di Catherine Lacey.



Colson Whitead affronta la questione razziale, la disuguaglianza sociale, l’assurdità di un sistema economico materialistico – che va bene, lo so che è l’ultima delle ovvietà parlare della società dei consumi malata perché l’economia ha smesso di basarsi sulla soddisfazione del bisogno quanto sulla creazione del bisogno e ora ci ritroviamo eticamente e filosoficamente spaesati in un mondo che crolla, lo so – e di una struttura promozionale e di produzione di contenuti che già negli anni novanta, quando è ambientato il romanzo, scricchiolava – e che adesso è messa ancora peggio, ricordiamo che ci sono siti che puntano sul clickbait pagano gli articolisti meno di tre euro ad articolo; una vecchia amica veniva pagata poco meno di un euro, capite bene lo schifo.
Uno schifo che fa schifo da tanto, che è sempre lo stesso anche se gli diamo nomi diversi. Lo stesso.