Di bestia in bestia, di Michele Mari

Michele Mari è nato a Milano nel 1955, così recita Wikipedia, ed essendo
sbocciato come autore di successo pochi anni fa, quando è uscito Roderick Duddle, pensavo fosse ancora un mezzo giovanotto, che superasse appena i trenta e non arrivasse ai quaranta. Il suo primo romanzo l’ha pubblicato con Longanesi nel 1989, l’ultimo è uscito per Einaudi nel 2017. Io l’ho scoperto nel 2016, con Roderick Duddle, di cui ho chiacchierato entusiasticamente qui. Nelle ultime settimane ho abbrancato quello che era il primo, Di bestia in bestia, ma rivisto e rimaneggiato nel 2013 per Einaudi, e questo mi fa domandare come fosse la prima versione, quella pubblicata da Longanesi, a quali livelli di sperimentazione potesse arrivare, anche se la struttura, scrive l’autore, è rimasta la stessa, si è limitato a limare via gli eccessi.
Di bestia in bestia è un’opera strana, così strana che sono contenta che non sia l’opera con cui Mari mi si è presentato, altrimenti forse avrei lasciato perdere, mi sarei un po’ arresa. Con la prospettiva di Roderick Duddle, liscio e scorrevole come una passerella intrisa d’olio, ero molto più ben disposta, incuriosita, aperta alla bizzarria di uno stile narrativo che va davvero poco incontro al lettore. È un romanzo in cui il messaggio, - più che messaggio, le tematiche soggiacenti – divorano la trama, semplice e archetipica, di cui non rimane che un bel pretesto. Un racconto che è pure meta-racconto, perché parla e si dilunga sul raccontare.
Dunque, la trama; facciamola semplice: il narratore è uno studioso il cui nome non viene mai svelato, che soggiorna insieme al collega Pesumai e alla propria segretaria Ebebléchei in uno sperduto castello in quel dell’est Europa – almeno così mi pare di ricordare, il calco alla Transilvania di Stoker è parecchio evidente. Il castello appartiene a un uomo misterioso, abbiente e solitario, che sommerge delle proprie tesi sul sapere gli altri personaggi in deliri logorroici che possono durare anche diverse pagine, con tanto di riferimenti bibliografici. Ora, questo tizio, Osmoc, afferma dapprima di vivere da solo, col solo ricordo della splendida moglie defunta – incredibilmente somigliante a Ebebléchei – e di un maggiordomo le cui forme e la cui favella ricordano il mostro di Frankenstein, non quello del libro che riesce da solo a imbracare lingua e filosofia, ma lo stereotipo cinematografico dell’orrendo gigante incolto. Dunque, si scopre ben presto che Osmoc non abita affatto solo col maggiordomo, ma che il castello è invero infestato da una figura minacciosa, un gigante pari al maggiordomo, eppure uguale al ricco possidente: il gemello di Osmoc, Osac.
Ora, perché svelo il mistero? Perché il punto del romanzo non sono il mistero, la sorpresa, la suspense. Il punto focale sono le tematiche nascoste, e in questo caso ce ne sono diverse, tutte affrontate in modo così diretto che pare uno scontro pugilistico. Il tema del doppio, con Osac e Osmoc; la problematica di una cultura che può fare da rifugio ma che rischia anche di diventare una prigione, perché è facile evitare la vita, quando l’alternativa è starsene chiusi in casa a leggere leggere leggere e la compagnia non può essere migliore; la contrapposizione tra il gigante buono, il maggiordomo, e Osac, ‘na bestia; soprattutto, la nettissima linea che intercorre tra la Cultura e l’Istinto, tra Mente e Corpo, Spirito e Materia, nelle ovvie declinazioni narrative dei due gemelli.
Dunque, che dire? Di bestia in bestia ha una trama pretestuosa, che pesca senza ritegno – volutamente e palesemente, mica si plagia – dalla letteratura gotica, riproponendone sicuramente con successo l’atmosfera. È una lettura piacevole, entusiasmante, si tratta forse di un romanzo che ti fa voltare forsennatamente una pagina dopo l’altra? Diavolo, no. È una lettura interessante che merita l’attenzione di un appassionato lettore? Cristo, sì.
(peraltro, onde evitare fraintendimenti, credo che Di bestia in bestia sia esattamente quello che Michele Mari voleva che fosse. Quindi, di base, un parto perfetto).