Augustus, di John Williams

Non posso definirmi un'appassionata di storia. Ci sono epoche che mi interessano e di cui cerco di imparare il più possibile – prima fra tutte il Medioevo – e altre che sto imparando a conoscere e apprezzare solo ultimamente, come il Risorgimento. Eppure, non so dire perché, certe hanno su di me l'effetto di una pozzanghera stagnante. E non si tratta di un sentire motivato, con un giusto senso cui io possa dare un nome. No, è che proprio a me certe epoche storiche non interessano. I Greci, i Romani, tutto ciò che precede la deposizione di Romolo Augusto, a parte qualche rara eccezione – che diciamocelo, i Celti hanno il loro fascino.
In sostanza, a me dell'Impero Romano importa poco, di base. Ma inizia a risultarmi più che interessante nel momento in cui a scriverne è John Williams, autore di quel capolavoro che è Stoner, e la Fazi si offre di mandarmi una copia di Augustus – tradotto, peraltro, da Stefano Tummolini.
Augustus è un romanzo epistolare; è chiaro che Williams abbia pescato a piene mani da tutta la corrispondenza e le cronache che ci sono arrivate dell'Impero Romano, e non è facile, almeno per me, tirare una linea netta tra la narrativizzazione del reale a l'invenzione. Ma mi rimane tra le mani un racconto, e onestamente penso che sia abbastanza.
Ottaviano è il nipote diletto di Cesare Augusto, e ha solo diciannove anni quando lo zio viene trucidato per mano di Bruto e degli altri guasconi suoi pari. Dalla corrispondenza che Cesare Augusto e la sorella si scambiano per accordarsi sul futuro del ragazzo, appare chiaro quanto parta svantaggiato nella corsa per il potere. È di salute cagionevole, è timido, fa fatica a interagire coi commilitoni. Non ha l'aria del capo, eppure Cesare lo esige come successore.
Come sappiamo, è lui a spuntarla – e ci mancherebbe, è l'Imperatore – e il romanzo di Williams è un susseguirsi delle imprese di Ottaviano, più politiche che guerresche, viste attraverso gli occhi dei suoi contemporanei. Amici e nemici, parenti stretti, alleati nella battaglia per salvare Roma dal disastro, conoscenti, perfino la sua vecchia balia.
Roma è magnifica, Roma è un covo di serpi. Splendore e corruzione, oro e sterco, tutto mescolato insieme. E a mostrarcela sono direttamente coloro che l'hanno conosciuta, amata e vissuta. Williams dà voce a Mecenate, ad Agrippa, a Marco Antonio, a Cleopatra. Tutti gli avvenimenti importanti nella vita di Ottaviano e della capitale sono scanditi dalle loro voci, con salti cronologici di decenni.

Non è il romanzo più appassionante di Williams, questo va detto. Ma d'altronde pare che l'autore abbia scelto di non dare spazio alla passione; Roma è governata col calcolo, col sotterfugio, con l'astuzia. Potere e passione non vanno di pari passo. È un romanzo lento, freddo, misurato. Eppure è riuscito a farmi interessare di uno dei periodi storici di cui, come ho già detto, mi importa meno. Vorrà ben dire qualcosa.