Appunti dall'intervista a Victor Frankenstein

È passato un po' di tempo, dall'ultima volta che ho postato qui un racconto, e anche dall'ultima volta che ho finito di scriverne uno. Il trucco sta nel fatto che questo non è proprio un racconto singolo, ma il primo passo di una serie di racconti che da diverso tempo mi si arrovellano in testa.
Ma non ha senso perseguire nel cincischiare.

Ho fatto del mio meglio per vestirmi all'altezza della situazione. Ho riesumato il vestito azzurro che indossavo il giorno della laurea, ho chiesto alla mia coinquilina di truccarmi, ho passato una buona mezzora a passarmi la piastra tra i capelli. Non dubito di avere un'aria seria e sofisticata, da giornalistica competente abituata a pranzi di lavoro coi lord come alle zone di guerra in Medio Oriente. Eppure non posso fare a meno di sentirmi mortalmente in imbarazzo. Di certo non aiuta l'ambiente, austero fino all'inverosimile. I soffitti alti, la carta da parati scura, il mobilio secolare infestato di polvere e lutto. Sospiro, e spero che non lo noti. Resto immobile, col mio sorriso accomodante, la penna immobile sul foglio nonostante il registratore appoggiato sul tavolo di legno scuro. Nella mia mente ripasso i mille modi in cui potrei iniziare a comporre l'articolo. Dagli occhi del dottore che evitano i miei come se ne andasse dell'intero universo? Del maggiordomo che mi ha accompagnata in questo salotto gelido, la cui pelle ingiallita lasciava tirava sulle ossa puntute? Oppure potrei partire dal mio viaggio in macchina per raggiungere il castello, la difficoltà nel trovare un sentiero inghiottito dalla foresta, del terreno incolto che lo circonda, delle sue mura divorate dall'edera e dal muschio. Non posso sbagliare l'incipit, con quest'articolo. È l'articolo perfetto, una delle interviste più succulente che mi siano mai capitate, e andrà a introdurre quella che spero diventerà una rubrica fissa. La mia grande occasione.
Certo, non si può dire che lui stia collaborando. Non mi sarei mai aspettata di trovarlo in questo stato. Me lo figuravo nervoso, anche nevrotico. Schiacciato dalla colpa, con gli occhi che saettano da un punto all'altro della stanza, incapace di nascondere il delirio di onnipotenza che deve averlo portato nella sua attuale condizione di eremitaggio. Immaginavo – e speravo – che il nostro incontro avrebbe avuto luogo in un sotterraneo rigonfio di ampolle piene di liquidi misteriosi, di macchinari dalla forma antiquata e l'uso sconosciuto, potevo già vederlo che allargava le braccia orgoglioso per mostrarmi tutto ciò che era riuscito a conquistare negli anni.
E invece mi trovo a intervistare un'ombra, in un salotto polveroso non dissimile da quello di mia nonna. Gli occhi cerchiati, i capelli scuri pettinati in fretta e furia, come se la mia visita lo avesse colto impreparato, nonostante ci fossimo accordati per telefono già una settimana fa. È ansioso, ma non ha voluto sottrarsi alle mie domande. Si sente solo. Eppure, ed è questo che mi sconcerta, guardo le sue mani e non riesco a capacitarmi di quanto siano belle e ben curate. La pelle appare soffice, liscia, anche se pallida d'un pallore da recluso. Le unghie sono tagliate con precisione millimetrica, rosee, arrotondate sulla punta. Non sono le mani di uno scienziato. Non ci sono macchie sulla pelle, né d'inchiostro, né di agenti chimici. Sto guardando le mani di un genio immobilizzato, di un folle in catene.
<<Quando si sentirà pronto, e voglio che sappia che non è obbligato a rispondere a nessuna delle mie domande, vorrei che mi raccontasse qualcosa di lei.>>
Cerco di parlargli con voce rassicurante e compartecipe. Spero che il sorriso sul mio viso appaia dolce e caloroso quanto vorrei, anche se la sua vista mi fa girare la testa. Mi sembra quasi di poter sentire la conta di cadaveri che ha provocato esalare dalla sua pelle diafana.
Si sposta sulla poltrona, per mettersi più comodo. Si porta una mano alle labbra, le accarezza per un istante come se volesse stimolarle a produrre un suono.
<<Io – ha la voce roca di chi non è più abituato a parlare – non ricevo molte visite. Mi scuso per il mio aspetto trasandato. Devo avere perso lo scorrere del tempo.>>
Allargo il sorriso di rimando.
<<Ho pensato che fosse la volta buona per potermi difendere dalle accuse che mi vengono rivolte, e che anch'io mi sono rivolto. Diverse volte.>> 
<<Rimpiange di essersi addossato ogni colpa?>>
Accenna un piccolo sorriso. Ha le labbra sottili e la bocca piccola, e l'effetto è buffo. Se non fossi a conoscenza di quello che ha fatto, mi farebbe tenerezza.
<<A volte. - ammette – Sono riuscito a rinchiudermi in un lutto infinito, dichiarandomi colpevole di ciò che ho fatto, e che non ho fatto.>> 
<<Ecco, parliamo di quello che ha fatto.>>
<<Quello che ho fatto.>> sussurra, piantando lo sguardo fuori dalla finestra. I vetri sono sporchi e opachi, e mi chiedo se il maggiordomo che ho visto sia l'unico abitante di questa dimora immensa, a parte il dottore <<Quello che ho fatto.>>
<<Ho creato la vita, ecco quello che ho fatto. E la morte, per simmetria. Ho creato un mostro, e ho finito per diventare tale. Io sono fuggito, e lui mi ha dato la caccia. Finché, ovviamente...>>
S'interrompe, e per un minuto buono attendo che continui a parlare. Giunge da fuori un gracchiare di cornacchie e per il resto regna il silenzio. Ne approfitto per scarabocchiare velocemente, sulla pagina appena scribacchiata del bloc-notes, il suo abbigliamento, e la posizione in cui si è pietrificato. Un completo di velluto nero, una camicia ingiallita dagli anni, di stoffa spessa, coi bottoni in madreperla. Un panciotto scuro, tra il marrone e il nero. Tutto in lui risulta ingrigito, come se qualcuno gli avesse spolverato addosso manciate di polvere fino a ricoprirlo interamente.
<<Mi perdoni, stava dicendo?>>
Si volta verso di me all'improvviso, facendomi sobbalzare. Sulle labbra gli aleggia un sorriso piccolo, ingenuo.
<<Stava parlando lei. Mi stava raccontando...>> 
<<Non ricordo di cosa stavo raccontando. Del Mostro, immagino. Del mio Mostro.>>
<<Il suo mostro>> ripeto <<Cosa può dirmi di com'è nato? C'entra forse il galvanismo, come riportano le teorie più accreditate?>>
<<Mia cara signorina...?>>
<<Vivaldi. Agata Vivaldi.>>
<<Mia cara signorina Vivaldi, ciò che è morto deve rimanere morto. Mai più dovrà essere tentato un processo di rianimazione di quanto volge verso la decomposizione. Le modalità con cui ho giocato con la morte, battendola sul suo campo, moriranno con me, scenderanno con me nella cripta di famiglia. Non mi faccia di queste domande, la prego.>>
<<Ho voluto provare. Sarebbe stato uno scoop.>> sorrido, cercando di farmi perdonare da questo pazzo ampolloso.
<<Legittimo. Legittimo.>>
Torna a voltare la testa di lato, come se qualcuno lo stesse chiamando dal giardino. Stringe le mani sui braccioli della poltrona, e pare per un attimo in procinto di alzarsi. Apre la bocca, la richiude. Mi vengono i brividi a dividere la stanza con lui, e questo mio timore mi fa paventare per gli incontri che mi aspettano per le prossime settimane. Deglutisco il disagio, pesto col piede sul pavimento, e lui sussulta.
<<Molti critici hanno ravvisato molteplici chiavi di lettura per interpretare la sua triste vicenda>> lo incalzo, per tenerlo ancorato al presente <<C'è chi parla di vincita della scienza sulla natura, chi parla di un'incarnazione in lei del divino, per il modo in cui ha scelto di creare la vita per poi abbandonarla.>>
Il dottore inclina la testa da un lato, come se cercasse di fare uscire dell'acqua che gli è entrata in un orecchio, e mi fissa senza fare cenno di volermi rispondere.
Abbasso lo sguardo sulla lista di domande che mi sono appuntata nel corso degli ultimi mesi, dopo avere riletto più volte la storia del dottore e del suo disgraziato mostro, e mi chiedo se riuscirò a ottenere almeno una, e dico una, risposta che valga la pena di trovare stampata su _________.
<<Molti si chiedono>> ricomincio, rifiutando la sconfitta che mi pare evidente negli occhi vacui di Victor Frankenstein <<Come mai abbia finto la morte. È stato per ingannare il mostro e costringerlo al suicidio? O si è trattato di una macchinazione narrativa?>>
Lui alza una mano diafana, e la volta per osservarne le unghie. Sembra quasi perplesso di quanto vede.
<<Morto.>> ripete, rotolandosi la parola in bocca  <<Morto.>>
Mi chiedo cosa potrei aggiungere per convincerlo ad aprirsi, o per aprirgli uno spiraglio nella testa dal quale possa passare un briciolo di consapevolezza, quando la porta del salotto si apre, e il maggiordomo fa il suo ingresso, più patibolare che mai.
<<Padrone>> ha una voce dolce, paterna <<Sono le cinque, dovete prendere le vostre medicine.>> 
<<Sono le cinque.>> ripete il dottore, annuendo <<Le medicine.>>
Si alza, passandomi accanto senza vedermi, ed esce dalla stanza sotto lo sguardo attento del maggiordomo. Quello mi fa un cenno, anche se non sono certa di cosa possa significare. Di aspettare, di andarmene? Ma non dice nulla, scompare insieme a Victor e io non faccio in tempo a chiedere chiarimenti.
La porta si chiude lasciandomi sola, e io mi rilasso contro lo schienale della poltrona, lasciandomi andare a un sospiro di sollievo, inalando polvere e peli di gatto.
Checché se ne possa dire, l'uomo che è stato Victor Frankenstein, lo scienziato che ha beffato Dio, è morto e sepolto. Non bastano le sue sembianze deambulanti a cancellare la sua scomparsa.
Tiro fuori il telefono dalla tasca e inizio a scrivere un messaggio al mio caporedattore. Non credo che riuscirò a tirare fuori un articolo da questo incontro, e onestamente mi sarebbe di dubbio gusto descrivere il Victor che ho visto oggi. Un uomo sconfitto, in barba al suo vecchio genio. Fosse anche solo per rispetto ai suoi numerosissimi seguaci, preferirei stendere un velo pietoso su questo accadimento.
Sarà ben difficile comunicarlo al capo, però. Già me l'aspetto.
Pomeriggio con lo scienziato pazzo, più pazzo che mai”, “Manicomio per il creatore di mostri”. Gli articoli della nostra rivista sono ben scritti, ottimamente argomentati, peccato per i titoli. Come si fa a farsi prendere sul serio quando a capo del tuo reparto mettono un cosiddetto “genio del marketing” il cui unico desiderio è fare acquistare una rivista di letteratura ingannando le folle ingorde di gossip?
Il cigolio della porta mi fa scattare in piedi. È pur sempre il tenebroso maniero della famiglia Frankenstein, non posso farci nulla se ho i nervi a fior di pelle. Sorrido al maggiordomo che mi fa cenno di seguirlo.
<<Il dottore sta bene?>> chiedo, mentre ci immettiamo nel tetro corridoio. 
<<Quanto può stare bene un'anima in pena.>> sospira l'uomo <<Avrà delle domande da porre. Lasci che sia io a rispondere alla sua curiosità.>>
Mi guida attraverso un dedalo di scaloni ricurvi e corridoi bui, dalle cui pareti mi fissano arcigni gli antenati di Victor. Interrompiamo il sonno di parecchi gatti, che ci osservano con sufficienza mentre passiamo. Sembrano abbastanza in salute, anche se mi risulta difficile immaginare Victor o il maggiordomo che se ne prendono cura.
Usciamo nel giardino, o meglio, all'esterno delle mura. Difficile definire “giardino” questa vegetazione selvaggia e straripante, al punto da apparirmi aggressiva. Tutta tronchi che si incurvano, rami che si protendono, erba troppo alta e troppo spessa. 
<<Lui>> mi schiarisco la gola, ricomincio <<Lui per telefono mi aveva detto di volersi difendere. Di voler dare una nuova interpretazione alla vicenda. Sa, le accuse che gli vengono rivolte...>> 
<<E che gli vengono rivolte giustamente.>> sospira il maggiordomo, con voce soffice.
Si volta verso di me, mi rivolge un triste sorriso. Ha i capelli candidi e radi, la pelle sottile e cascante. Gli occhi appannati, e vorrei davvero pensare che si tratti di comune cataratta. La divisa è impolverata, e sembra poter cadere a pezzi da un momento all'altro, al primo soffio di vento. Mi chiedo se i mostri non si siano moltiplicati, nella dimora dei Frankenstein.
<<Si renderebbe ridicolo, se cercasse di difendersi. Non c'è scusa che tenga, per i suoi atti. È stato un vile, ed è giusto che lo chiamino mostro. Lui lo sa.>> incrocia le mani dietro la schiena e storce la bocca <<Lo sa, il più delle volte. Non è sempre così assente, è solo che... le cure lo hanno stravolto.>>
<<Era morto.>> ripeto, come se lo stessi dicendo a Victor, di nuovo.
<<Forse. Chi può dirlo?>> il maggiordomo sorride appena, senza guardarmi.
Scorgo in lontananza il rosso squillante della mia macchina, una vecchia carretta arrugginita che è riuscita a scarrozzarmi in giro indenne per gli ultimi dieci anni. Figuriamoci che l'ho ereditata da mio nonno. Avrei voglia di raggiungerla correndo, ma resto immobile accanto al maggiordomo, che non apre bocca.
<<Sembra molto affezionato a Victor. Serve la sua famiglia da molto tempo?>> gli chiedo, sbirciando la sua reazione. 
<<Non da quanto si potrebbe pensare.>> risponde, senza guardarmi <<Ma è passato molto tempo, sì. Molto.>>
<<Le è mai capitato... ha mai visto il mostro?>>
<<Signorina.>> mi lancia un'occhiata delusa <<Sappiamo entrambi che il mostro è Victor. La sua disgraziata creatura non merita un simile appellativo.>>
<<La sua disgraziata creatura ha ucciso delle persone. E questo lo qualifica per il ruolo di mostro a prescindere dal suo aspetto.>> faccio notare.
Un tonfo mi fa sobbalzare. Proveniva dall'interno della casa, forse Victor è caduto e si è fatto male, forse uno degli scaloni è finalmente franato sotto il peso degli anni. Il maggiordomo però non si muove, non dà cenno di avere udito alcunché. Mi fissa come a interrogarmi sulla mia prossima volta.
<<Ho lasciato che lei venisse a farci visita, ma non per indagare sulla vita del dottore.>> sospira infine <<Per metterla in guardia, piuttosto. Se Victor è vivo, contrariamente a quanto narra la sua leggenda, potrebbero esserci altri sopravvissuti a una penna tanto mortifera.>>
Non rispondo, deglutisco e basta. I suoi occhi vitrei non mi abbandonano.
<<Credete che l'altro, se per una malaugurata ipotesi fosse sopravvissuto, sarebbe soddisfatto di leggere della follia del suo creatore? O che gradirebbe d'essere chiamato “mostro” su un giornale buono da accendere la stufa?>>
L'orgoglio di articolista mi fa fremere le labbra, ma il mio pavido cuore di letterata mi frena. No, non gradirebbe. Ripenso alla fine che ha fatto fare a coloro che Victor ha avuto cari, e penso a quanto sono affezionata alla sensazione della testa attaccata al collo.
<<Victor non è famoso come un tempo. Ha i suoi appassionati studiosi, e altrettanto appassionati detrattori. Ma nessuno si è dato la pena di venirci a scovare tra queste vecchie mura, negli ultimi decenni. Si faccia un favore, non ne parli con nessuno. Scappi via, e non si lasci inseguire.>> 
<<Non posso prometterlo.>> sussurro, affondando il primo passo in avanti.
<<Perché è orgogliosa, e non lo ammetterà davanti a me. Ma so che in cuor suo ha già preso la decisione più giusta.>>
Non lo saluto, non ho frecce al mio arco e lo sappiamo entrambi. Cerco solo di non correre, per raggiungere la macchina. E mentre giro la chiave per metterla in moto, scorgo un'ombra scura schiacciata contro una finestra del maniero. A ripensarci, credo di aver percorso tutto il sentiero in retromarcia.