Questo libro l'ho ricevuto direttamente dalle mani
dell'ufficio stampa della casa editrice, Edizioni Spartaco, in quel
del Salone del Libro, che è davvero strano da visitare come
lit-blogger. Capita che qualcuno sappia chi sei, e che ti faccia un
sacco di complimenti e magari ti omaggi pure di qualche libro; capita
anche di incontrare editori che – per carità, liberissimi, spesso sono quelli che se lo possono permettere –
della blogosfera poco ne sanno e gli interessa meno, e ti guardano
con sospetto mentre stai a lumare i loro volumi, in attesa di una
richiesta di libri – no, editori-standisti, non vi chiedo niente,
state tranquilli.
L'ufficio stampa di Edizioni Spartaco mi accoglie ogni
anno con un calore che manco mia zia; mi offre il caffè, mi racconta
le ultime uscite, mi chiede cosa mi vada di leggere. Tavolo numero
sette di Darien Levani era una delle novità proposte, ma
l'ufficio stampa era così entusiasta dell'autore che mi ha fatto
scivolare nella borsa anche un altro libro, Toringrad – che
sono ragionevolmente certa mi piacerà un sacco.
Edizioni Spartaco, dicevo, è così gentile che mi mette
in una condizione imbarazzante per chi bazzica nei media – un blog
è, dopotutto, un media – di chi vorrebbe sottolineare e
ringraziare l'altrui gentilezza ma non sa come fare perché in questo
internet malato di sfiducia ogni affermazione positiva è tacciata di
interessi nascosti; è uno dei casi in cui mi riduco a una cortesia
spicciola per non insospettire i lettori di chissà quale accordo
sottobanco.
Che stress.
(che poi tutta 'sta tiritera col romanzo non c'entra
niente, mi andava giusto di dire apertamente che quelli di Edizioni
Spartaco sono un sacco gentili e ci sanno fare con le persone).
(offritemi il caffè anche l'anno prossimo, mi avete salvata).
(offritemi il caffè anche l'anno prossimo, mi avete salvata).
Darien Levani è nato a Fratar nel 1982, fa l'avvocato e
vive a Ferrara. Come potrei definire Tavolo numero sette? È
un po' un giallo, un po' un thriller, un po' noir; ma è come se
avessero spostato tutti questi generi in un'ambientazione altra;
riesco a spiegarlo solo con un'ardita metafora cinematografica:
putiamo caso che mentre stiamo guardando in dvd Gli insoliti sospetti
(Bryan Singer, 1995), su Mediaset vada in onda un cinepanettone,
non importa quale. Un fulmine colpisce all'improvviso l'antenna,
arriva col cavo fino al televisore e la trama tortuosa di Kaiser Soze
subentra nel manifesto visivo-ideologico dei Vanzina. La trama è
complessa, il caso è serio e difficile, le tematiche affrontate
dolorose e pertinenti. L'ambientazione è un matrimonio i cui
invitati, beh. Beh.
Viviamo tutti in una bolla personale, più o meno
limitata, composta dalle persone con cui accettiamo di avere a che
fare e dalle ideologie che portano con sé. Nella mia bolla le
discussioni sono fervide, toccano gli argomenti più svariati, la differenza è
ricchezza e non si giudica senza capire, – e magari non si giudica e
basta perché fortunatamente la vita non è Forum. Sono contraria
allo snobimo a priori, all'identificare qualcosa o qualcuno come
sublimamente stupido, crudele, incapace a prescindere. Ce la metto tutta per
comprendere, identificarmi, spiegarmi. Ma negare l'idiozia in toto
non è segno di apertura mentale, significa non volersi prendere la
responsabilità di tacciare qualcosa (o peggio, qualcuno) di
errore, e secondo la mia personalissima opinione, è un approccio
sbagliato quanto il suo contrario – meno dannoso e meno antipatico,
ma comunque sbagliato. Questo per dire che, nonostante io viva nella
mia splendida bolla in cui i complotti su gender, vaccini e
allunaggio sono palesi minchiate, il mondo è abitato anche da
persone credulone e/o in malafede. Gli imbecilli ci sono. Fa male, ma
ci sono. Non me ne capacito ma vivono e camminano tra noi, potrei catturarne
un centinaio coi giusti hashtag – 49 milioni, bacioni etc.
Dicevo. Tavolo numero sette. In Tavolo numero sette
il protagonista è un guscio; è un ricettacolo con poca storia e
poco carattere del caso che verrà sviscerato al matrimonio del suo
collega. Al tavolo numero sette ci sono due coppie, una ragazzina, il
protagonista e infine Camillo Bordin, un giudice che ha raggiunto suo
malgrado una fama infida per aver scagionato dall'accusa di omicidio
plurimo un uomo che, a detta dell'Italia intera, era colpevole al
100%.
Non so quale sia lo stato della tv spazzatura al
momento; se fiocchino al pomeriggio trasmissioni in cui vengono
sviscerati i delitti più efferati, quanto i casi di cronaca nera
vengano pompati in prima serata; nei suoi ultimi anni, mia nonna si
consolava parecchio con le disgrazie altrui. Le portavo riviste
patinate ed economiche che andavano a scavare nei delitti più
recenti e, in mancanza d'altro, in antichi casi irrisolti. Per
scherzare ci auspicavamo qualche nuovo omicidio, così da darle
materiale fresco con cui dilettarsi, – non pensate male di mia
nonna, manigoldi, erano i suoi ultimi anni e non era più del tutto
lucida, e quello che ha vissuto lei non ce l'avete negli incubi. Sta di fatto che all'interno del romanzo, quel tipo di
giornalismo si getta a pesce su un ghiottissimo caso di cronaca nera.
Madre e figlia trucidate nel loro appartamento, un messaggio scritto
col sangue. Pure Ellroy avrebbe sbavato.
Al tavolo numero sette tutti, a parte il protagonista e
dopo un po' Deborah, la sedicenne col telefono sempre in mano,
prendono le parti dell'accusa e si indignano a posteriori della
decisione del giudice Camillo; Camillo li lascia fare. Discute,
argomenta, mantiene la calma. Non sa chi sia il colpevole, sa solo
che non c'erano abbastanza prove per condannare definitivamente
l'indagato, Pietro Erardi. Spiega che cos'è realmente la legge,
spartisce il proprio punto di vista con gli altri invitati – perle
ai porci. La trama va avanti, il mistero si infittisce. A un certo
punto Levani mette lì la soluzione, sotto gli occhi di tutti, ma
nessuno la vede; io, almeno, non l'avevo vista, i miei sospetti
viravano altrove.
Tavolo numero sette, in chiusura. È un bel romanzo, che
come thriller fa il suo dovere al punto che un po' mi sono pentita di
averlo letto di notte anziché di giorno; il caso è interessante, il
tema del pubblico che pretende di mettere le mani sulla legge e la
spettacolarizzazione dei processi sono affrontati dolorosamente e con
cognizione. L'unica pecca che muovo al romanzo è il vuoto dei
personaggi; alcuni sono rimbambiti per forza di cose, perché c'è
bisogno di menti molto vuote per fare da cassa di risonanza agli
argomenti di Camillo; capisco la scelta dell'autore di
non voler dar voce alla ragionevolezza, se non nella parte del
giudice – per il protagonista e per Deborah, la faccenda è più un
gioco che una questione di principio e di giustizia. All'interno del
romanzo, Camillo è solo; e neanche il lettore può raggiungerlo.
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