L'uovo di Barbablù di Margaret Atwood

 C’era una volta una giovane me che non leggeva racconti. “Non c’è abbastanza spazio per approfondire l’universo narrativo, e l’universo narrativo per me è importante”, diceva. Diceva anche che “Nella forma breve è difficile sviluppare una connessione emotiva coi personaggi, perché non si passa abbastanza tempo in loro compagnia”. Tutto sensato, in retrospettiva. La me del presente, narrativamente più scafata, vorrebbe tornare indietro e dare un coppino alla giovane me, e poi lanciarle sul cranio alcune delle raccolte di racconti che ha adorato negli ultimi anni, facendo attenzione di colpire con lo spigolo, perché il messaggio passi chiaramente.

La me del presente non ha ancora risolto i problemi con la gestione della rabbia.

 


L’uovo di Barbablù è una raccolta di racconti di Margaret Atwood uscita per Racconti Edizioni nella traduzione di Gaja Cenciarelli. Non è facile parlare delle antologie, perché le storie tra loro sono diverse, ed è difficile trovare un collegamento logico-narrativo che possa legare insieme una stessa definizione. Ci provo lo stesso, perché è una raccolta che ho amato e divorato. Prima di tutto, in L’uovo di Barbablù non ci sono persone unidimensionali, che si riducano a un unicuum buono o cattivo. Le vittime delle circostanze hanno una loro autonomia, la capacità di agire. I ruoli non rimangono fissi: la crudeltà subìta si rimpalla con una crudeltà attuata. E non viene annacquata dalla pena, dalla compassione provocata dalla conoscenza del personaggio – perché ci avviciniamo sempre al fulcro dei protagonisti come esseri umani, e la loro essenza ci viene sottilmente spiegata. La crudeltà resta tale. Nel racconto Scorfana, uno dei pochi in cui uno dei protagonisti è un uomo, viene messa in atto una crudeltà orribilmente umana, che non viene alleggerita nella sua natura di reazione. Ci sentiamo vicini alla persona che compie il gesto, e allo stesso tempo lo troviamo disgustoso, paralizzante.

Il racconto che dà il nome all’antologia è sottile, freddo. La protagonista è una donna complessa, sfaccettata e insieme di un’ingenuità gretta, disarmante. È sicura di sé e del mondo che ha attorno, o almeno è quello che si dice. Grattando la superficie, leggendo dietro il suo comportamento, si sente già qualcosa tremolare. Deve scrivere per un corso di scrittura creativa una rielaborazione della favola, e scrivendo scava, e scavando non trova nulla se non macchinazioni narrative interessanti che quasi non sembrano riguardarla. Ma la storia va avanti – e io me ne sto zitta.

 


È difficile definire lo stile. Alcuni racconti sono scritti in prima persona, altri in terza. Alcuni guardano al passato con una nostalgia struggente, altri con una freddezza misurata. Tutti si rivelano efficaci, pungenti. Sui protagonisti e sulle protagoniste si riflettono le volontà e i desideri altrui, e il loro peso. Antichi rimpianti, vecchie ricerche fallite, domande la cui risposta continua a sfuggire. La lotta col passato perché diventi presente, perché possa trasformarsi in futuro.

Non sono racconti che fanno male. Sono strette di mano. Vicinanza di altre anime perse in un non luogo che prima o poi visitiamo tutti. Ecco, forse questi racconti non fanno male, ma un poco fanno paura: perché in quel non luogo si potrebbe anche rimanere intrappolati.