Walter Tevis (1928-1984) ha
scritto poco più di una manciata di romanzi e decine di racconti
brevi. Ha spaziato molto, come genere; noir, fantascienza, la realtà
incontrovertibilmente sfaccettata di La regina degli scacchi,
titolo che ha rintuzzato la sua fama dopo l’adattamento di Netflix
– che come ripeto circa una volta al mese, ho trovato parecchio
“meh”, confrontato alla profondità sottile del romanzo. Approfitto della recensione per fare presente che questa perla della letteratura è da tempo fuori catalogo, irreperibile. Devo la possibilità di averlo letto alla magia inesauribile della libreria di Coinquilina, che mi tira fuori dagli scaffali l'assurdo e l'introvabile come nessuna biblioteca è mai stata in grado di fare. Non credo che qualcuno di minimum fax passerà da queste parti - al momento i diritti dovrebbero essere ancora loro - ma mi appello alla ragionevolezza editoriale: è un capolavoro ed è fuori catalogo, la realtà non può piegarsi in questo modo all'ingiustizia, il possibile rischia di tranciarsi. Salvate il mondo, ristampatelo.
Aggiunto che da L’uomo che cadde sulla Terra è stato tratto nel 1976 il film omonimo con David Bowie nei panni del protagonista, e plaudo alla perfetta scelta di casting. Ziggy Stardust già ci cantava quanto si sentisse lontano dai terrestri.
Ma tornando alla letteratura, nel 1963 Walter Tevis pubblica L’uomo che cadde sulla Terra, il suo secondo romanzo. Inizia nel Kentucky, negli anni ‘80, anche se noi all’inizio non sappiamo esattamente quando siamo – e bisogna tenere a mente che si tratta di un’ucronia, un passato già abbastanza lontano che ai tempi era un futuro immaginifico, liofilizzato e utopico insieme.
La voce narrante, secca e fluida, segue i passi del protagonista, un individuo bizzarro che si guarda intorno stranito, che osserva i passanti con uno sguardo curioso da estraneo. Entra in un negozio, vende una fede d’oro. Il testo ci dice che lo farà moltissime altre volte, fedi identiche, con un’iscrizione che convince gli orafi di volta in volta che non si tratta di merce rubata. Ha bisogno di contanti, e subito, per fare quello che intende fare. È un piano economico attentamente sviluppato e programmato dai suoi – concittadini? Conterranei? Compagni alieni? – che riguarda brevetti, progresso tecnico-scientifico – ad uso e beneficio dell’umanità – e soltanto in ultimo comprende un contatto con l’esterno. Ma non è questo il punto. Questo è il contesto, è quello che succede sulla carta. È la trama, ma non l’argomento centrale. L’uomo che cadde sulla Terra è un romanzo intimista, profondo, sottile. Questo significa che non si tratta di fantascienza, che è qualcosa di più? No. È semplicemente ottima fantascienza. E voglio immaginare un Walter Tevis che discende sulla Terra per assestare poderosi calci laddove il sole non osa infiltrarsi, alla masnada di critici e autori che si risentono ad accostarsi alla fantascienza, pure quando ci sguazzano con ogni evidenza.
In L’uomo che cadde sulla Terra ci sono pochi personaggi importanti. Il primo è certamente l’alieno, che si fa chiamare Newton; poi c’è Nathan Bryce, un ricercatore vedovo, pacatamente disperato, che rimane sconvolto dalle intuizioni scientifiche sulle quali Newton ha costruito il suo impero di brevetti, e che sospetterà a lungo della realtà identità dell’alieno; più marginale, la governante di Newton, una donna che appare dapprima come una macchietta, ma che poi acquista sempre maggiore peso, profondità, e non in un modo che neghi l’immagine che ci era stata data all’inizio, ma che piuttosto la contestualizza, la rende umana in modo quasi commovente.
Il fulcro del romanzo, trovo,
è ciò che significa essere umani, un argomento che l’autore
riesce ad aggredire con discrezione e delicatezza, offrendo il punto
di vista di un alieno che si interroga su se stesso, sulla propria
natura, sulla propria integrazione. Tevis è un narratore abile e
sottile, che lascia emergere con naturalezza ciò che altri
griderebbero. È un’opera di fantascienza, ma la fantascienza non è
il punto. Il punto è l’estraneità, è l’occhio di uno straniero
che guarda il fuori e lo usa per guardarsi dentro, scoprendo qualcosa
che non conosceva. È un’opera dolce e amara, splendida e crudele.
Non sono certa di averla compresa del tutto. C’è ancora qualcosa
da qualche parte tra le righe che aspetta di essere interpretata.
Penso a Newton che beve vino da solo, al crepuscolo, in una stanza
vuota, seduto immobile davanti alla finestra. È un romanzo che mi ha
lasciato un’impronta, e credo davvero che voglia dire tanto.