L'arte della gioia di Goliarda Sapienza

 Mi sono innamorata di Goliarda Sapienza come mi sono innamorata di Italo Calvino con Le Cosmicomiche, come mi sono innamorata di Elsa Morante con Menzogna e Sortilegio, ovvero con un certo stupore. Si tratta di innamoramenti strani, perché non me li aspettavo; dopo Se una notte d’inverno un viaggiatore e dopo L’isola di Arturo, pensavo che non mi potesse germogliare dentro un’affezione maggiore, che l’incantesimo fosse bello e concluso nel suo apice. E poi PEM!, arriva quella prosa che ti ingarbuglia il pensiero e ti fa tornare a rileggere una frase due, tre volte, per assaporarne la metrica e il senso.



Ecco, Goliarda Sapienza. Se non me l’avesse consigliato Diletta, non so se e quando l’avrei letta. Credevo, nella mia beata ignoranza, basandomi soltanto sul titolo di quel capolavoro che è L’arte della gioia, che fosse un manuale di auto-aiuto spicciolo per intellettuali che se la credono. Non so perché mi desse questa impressione, davvero. Forse era anche il nome a suonarmi fittizio e altisonante. Ora lo leggo e mi viene da sorridere, perché è proprio perfetto: Goliarda, la sua Modesta, così piena del “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza” di Lorenzo de’ Medici, e rigonfia del “tutto è follia, follia nel mondo, ciò che non è piacer” di Verdi; come se avesse fatto una precisa scelta di campo, quella di vivere dalla parte del sentimento anziché della ragione, non per allontanare l’intelletto, ma perché l’intelletto è secondario, è uno strumento attraverso il quale affinarsi per essere più liberi, e quindi più felici. È una subordinazione volontaria tra ragione ed emozione, che si articola attraverso lo studio del contesto e del presente e in un progressivo smantellamento delle norme che regolano la vita sociale, nel rifiuto opposto senza sforzo al “perché sì”. Il “perché” Modesta lo trova nella gioia.

Della trama non ho ancora detto nulla, e cercherò di farla breve. Siamo all’inizio del ‘900, forse alla fine dell’800, in Sicilia, e Modesta vive con la madre e una sorellina affetta da una forma di ritardo piuttosto grave. Modesta le odia; per lei sono fastidi, catene, brutture che non le offrono nulla di bello o interessante, solo lamenti e rumori molesti. Modesta è ancora una bambina quando la sua piccola vita astiosa e insoddisfacente viene stravolta, più o meno per mano sua; si ritrova in un convento, a studiare con le suore, a legarsi con una comunità religiosa fatta di obblighi e divieti, un contesto che le fa rifiutare ancora più profondamente l’opposizione dogmatica tra morale e piacere, ma che almeno la rimpinza di nozioni e conoscenze. Modesta è solo una bambina, ma ha già iniziato a capire chi è e chi non vuole diventare; sa che le suore sono diverse da lei, e che se non vuole essere cacciata, deve nascondere quella diversità – quell’approccio alla vita allegro e affamato – e simulare devozione. Va tutto bene, finché non le scivola fuori un commento che pare un’accusa, diretto proprio a Madre Leonora, colei che l’ha accolta e cresciuta per anni, cercando di plasmarla in una versione ancora più pura di sé. E a quel punto, Modesta deve agire. E lo fa. Modesta non ha freni morali; chiunque decida di frapporsi tra lei e la felicità, chiunque minacci il suo spensierato stare al mondo, verrà spazzato via con una manata dal suo destino. Non si fa problemi. Non vuole essere un’eroina romantica, non le interessa il bene inteso come valore morale. Dei modelli imposti o suggeriti dalla società, ne fa carta igienica.

E voglio dire, messa così, come si fa a non innamorarsene un po’, a non volere un po’ della sua influenza nella propria vita?



Un aspetto che ho trovato meraviglioso del romanzo è quanto fosse pregno e cangiante; leggevo, all’inizio, e pensavo che ci fosse un che di De Sade, ma mescolato sapientemente col Candide di Voltaire; vado avanti, mi guardo negli occhi col terribile Grenouille di Suskind, protagonista de Il profumo. Proseguo ed ecco che spunta Marx; poco più avanti e arriva Gramsci. E non è solo una questione di contenuti – Modesta studia, studia ed evolve, studia e digerisce ciò che è nuovo e le sembra vero, e lo disossa per capirlo e criticarlo con la calma sicurezza di chi ha disprezzo per i dogmi – ma pure di stile, di aspettative; Modesta, col tempo, cambia. Tutto ciò che le accade le lascia dentro qualcosa. È spietata, ma quando ama, ama profondamente. Rifiuta le catene, ma nutre i legami. È un’evoluzione strana; Modesta da bambina che detesta la sorella, Modesta a cinquant’anni che-

Non dico altro, non voglio dire dove va il romanzo. Copre un buon mezzo secolo, e qualcosa di più. Copre un’epoca lunga e travagliata, un progresso a singhiozzo e poi una stasi colpevole. Copre i primi passi dei movimenti operai e del partito comunista, l’avvento del fascismo, il dopoguerra. Copre generazioni e generazioni, ognuna con la sua voce e i suoi tradimenti.



L’arte della gioia è un romanzo che avrei voluto incontrare prima. Diciamo intorno ai vent’anni, anche qualcosa di meno. Goliarda è spietata, lucida, onesta: mette in guardia le sue lettrici dai compagni che hanno sempre in bocca l’uguaglianza e neanche ammettono di non rispettare le compagne; dice ai lettori dove guardare, per trovare ed estirpare da sé i rimasugli marci di un sessismo culturale, che non si è scelto, ci si è cresciuti. Goliarda ti guarda in faccia, e leggendo ti ritrovi a fare lo stesso. Goliarda parla a tutt* e a tutt* offre conforto, comprensione, una liberazione che puoi accettare se è la tua, e altrimenti pace fatta.