Quanto manca per Babilonia? di Jennifer Johnston

Fino a qualche tempo fa ci pareva assurdo come a pochi anni dagli orrori della Grande Guerra, l’umanità abbia finito per infiltrarsi in quelli della Seconda. Forse il secondo conflitto si sarebbe potuto evitare se non si fosse fatto tanto per evitarlo – se gli stati europei non avessero concesso a Hitler tutto quello spazio di manovra, se avessero fermato per tempo un’espansione sempre più sfrontata, annessione dopo annessione. Come inizino le guerre, si impara solo quando sono già iniziate. Verrebbe da pensare che non ci sia orrore più grande di un conflitto tra popoli, eppure non facciamo niente per scongiurarne almeno la sottesa minaccia. Il mondo ripudia la guerra, ma non abbastanza da impedirla. Sembriamo destinati a impartirci all’infinito la stessa lezione senza mai impararla.
E insomma, mondo, vogliamo finirla con questo circolo vizioso? Vuoi per favore andare in analisi?

La Grande Guerra è stata un massacro. L’evaporare incessante di generazioni di uomini e ragazzi. A leggere i diari degli ufficiali – confesso che la mia fonte non sono i documenti, ma questo allegrissimo intervento di Barbero – ci rendiamo conto di una svalutazione totale del valore della vita umana. Le morti dei soldati erano annoverate tra le spese; per giudicare l’esito di una battaglia, non si badava alla conta dei morti, ma i territori conquistati. Il numero dei morti seguiva quello delle pallottole spese. La Grande Guerra è stata questo; la Grande Guerra è stata quella che ci ha fatto riconsiderare l’idea della guerra.



Scritto nel 1974 e uscito a maggio in Italia per Fazi nella traduzione di Maurizio Bartocci, Quanto manca per Babilonia? di Jennifer Johnston inizia e finisce con la stessa frase: “Mi hanno lasciato penna e taccuini, perché sono un ufficiale e un gentiluomo. Così, scrivo a aspetto”. Alec, il protagonista e narratore, si trova detenuto dal maggiore del suo plotone, in trincea. Attende la sua ora paziente, cosciente del privilegio che gli permette di andarsene con un pizzico di dignità in più – quantomeno con riconosciuta umanità – essendo figlio unico di una famiglia dell’aristocrazia irlandese.

Alec stila e riassume la sua intera vita fino a quel momento – i pochi punti salienti che riconosce in quella che lui per primo sa essere stata una vita vuota e solitaria – partendo dall’infanzia, dalla sua amicizia con Jerry – l’unico legame veramente importante – un ragazzino figlio di contadini che abita nelle vicinanze della sua tenuta. Si incontrano da bambini, si sfidano come bambini e Alec promette a Jerry di insegnargli a cavalcare, se l’altro gli insegnerà a fare a botte. Tolti gli incontri clandestini con Jerry, le giornate di Alec scorrono grigie. Il padre è una figura quasi evanescente, la madre riempie l’intera casa della sua persona, bivaccando allegramente sullo spazio che Alec dovrebbe dedicare a se stesso, alla sua crescita personale, alle sue aspirazioni. Alec parte volontario perché sa che Jerry partirà insieme a lui – non per ideali, ma per lo stipendio – e perché la madre insiste affinché lui parta. Quella di Alec non è stata una partenza in pompa magna, ma una fuga.



In Quanto manca per Babilonia? non si parla solo di guerra; si parla del fatto che per Alec e Jerry sia un’esperienza diversa, perché uno è nobile e l’altro è un disgraziato. Si accenna al fatto che sono irlandesi, a pochi anni dall’esplosione dell’IRA. La questione della classe sociale è forse la più presente nel romanzo; l’amicizia tra Alec e Jerry sembra una trasgressione alla regola insopportabile, forse perfino in modo eccessivo – ma onestamente, non essendo una storica non saprei dirlo.

E alla fine, il romanzo è questo. L’evidenza di un agghiacciante spreco di vita. L’accumularsi di anni mai vissuti e un’esistenza accartocciata.