Fino a qualche tempo fa ci
pareva assurdo come a pochi anni dagli orrori della Grande Guerra, l’umanità
abbia finito per infiltrarsi in quelli della Seconda. Forse il
secondo conflitto si sarebbe potuto evitare se non si fosse fatto
tanto per evitarlo – se gli stati europei non avessero concesso a
Hitler tutto quello spazio di manovra, se avessero fermato per tempo
un’espansione sempre più sfrontata, annessione dopo annessione.
Come inizino le guerre, si impara solo quando sono già iniziate.
Verrebbe da pensare che non ci sia orrore più grande di un conflitto
tra popoli, eppure non facciamo niente per scongiurarne almeno la
sottesa minaccia. Il mondo ripudia la guerra, ma non abbastanza da
impedirla. Sembriamo destinati a impartirci all’infinito la stessa
lezione senza mai impararla.
E insomma, mondo, vogliamo
finirla con questo circolo vizioso? Vuoi per favore andare in
analisi?
La Grande Guerra è stata un
massacro. L’evaporare incessante di generazioni di uomini e
ragazzi. A leggere i diari degli ufficiali – confesso che la mia
fonte non sono i documenti, ma questo allegrissimo intervento di Barbero – ci rendiamo conto di una svalutazione totale del valore
della vita umana. Le morti dei soldati erano annoverate tra le spese;
per giudicare l’esito di una battaglia, non si badava alla conta
dei morti, ma i territori conquistati. Il numero dei morti seguiva
quello delle pallottole spese. La Grande Guerra è stata
questo; la Grande Guerra è stata quella che ci ha fatto
riconsiderare l’idea della guerra.
Scritto
nel 1974
e
uscito a maggio in Italia per Fazi nella traduzione di Maurizio
Bartocci, Quanto
manca per Babilonia? di Jennifer Johnston inizia e finisce
con la stessa frase: “Mi hanno lasciato penna e taccuini, perché
sono un ufficiale e un gentiluomo. Così, scrivo a aspetto”. Alec,
il protagonista e narratore, si trova detenuto dal maggiore del suo
plotone, in trincea. Attende la sua ora paziente, cosciente del
privilegio che gli permette di andarsene con un pizzico di dignità
in più – quantomeno con riconosciuta umanità – essendo figlio
unico di una famiglia dell’aristocrazia irlandese.
Alec
stila e riassume la sua intera vita fino a quel momento – i pochi
punti salienti che riconosce in quella che lui per primo sa essere
stata una vita vuota e solitaria – partendo dall’infanzia, dalla
sua amicizia con Jerry – l’unico legame veramente importante –
un ragazzino figlio di contadini che abita nelle vicinanze della sua
tenuta. Si incontrano da bambini, si sfidano come bambini e Alec
promette a Jerry di insegnargli a cavalcare, se l’altro gli
insegnerà a fare a botte. Tolti gli incontri clandestini con Jerry,
le giornate di Alec scorrono grigie. Il padre è una figura quasi
evanescente, la madre riempie l’intera casa della sua persona,
bivaccando allegramente sullo spazio che Alec dovrebbe dedicare a se
stesso, alla sua crescita personale, alle sue aspirazioni. Alec parte
volontario perché sa che Jerry partirà insieme a lui – non per
ideali, ma per lo stipendio – e perché la madre insiste affinché
lui parta. Quella di Alec non è stata una partenza in pompa magna,
ma una fuga.
In
Quanto
manca per Babilonia?
non si parla solo di guerra; si parla del fatto che per Alec e Jerry
sia un’esperienza diversa, perché uno è nobile e l’altro è un
disgraziato. Si accenna al fatto che sono irlandesi, a pochi anni
dall’esplosione dell’IRA. La questione della classe sociale è
forse la più presente nel romanzo; l’amicizia tra Alec e Jerry
sembra una trasgressione alla regola insopportabile, forse perfino in
modo eccessivo – ma onestamente, non essendo una storica non saprei
dirlo.
E alla
fine, il romanzo è questo. L’evidenza di un agghiacciante spreco
di vita. L’accumularsi di anni mai vissuti e un’esistenza
accartocciata.