La città dell'orca di Sam J. Miller - Capitalismo, Distopia (e speranza)


Nel parlare di questo libro divagherò. Divagherò tantissimo e non c'è nulla che possiate – e che possa – fare per impedirlo. Che poi la prolissità è un po' il mio sfortunato trademark insieme alle congiunzioni piazzate disordinatamente all'inizio e alla fine delle frasi. Ad ogni modo.
La città dell'orca di Sam J. Miller, uscito l'anno scorso per Zona 42 nella traduzione di Chiara Reali, finalista al premio Nebula e al premio Locus. L'autore vive a New York, e gli USA si sentono tutti. Sam è stato così gentile da dire a Giorgio – editore della Zona – di passarmi la sua email per permettermi di intervistarlo, peccato che durante la quarantena la concentrazione faccia un po' quello che voglia e non sia ancora riuscita a mettere insieme, nel giusto ordine, le domande che voglio fargli.
L'avevo detto che avrei divagato. Veniamo al libro. E poi al genere. E poi a tutto il resto.



La città dell'orca inizia in un futuro che ormai suona tendenzioso definire distopico. Potremmo anche limitarci a “inizia in uno dei futuri possibili”, fatta eccezione per un paio di attuazioni medico-sperimentali dagli esiti che sanno più di sciamanesimo che di farmacologia. Tolte quelle, possiamo immaginarci tutti gli Stati Uniti che crollano sotto il peso di un capitalismo che divora se stesso, il governo che cede, la popolazione che scappa, si riunisce in comunità che imparano a difendersi oppure soccombono. Se c'è una cosa che di cui gli americani non mancano, sono le risorse belliche. Mentre noi svuotavamo i supermercati di lievito e farina, in Olanda si facevano le code fuori dai coffee-shop – e diciamocelo, entrati in quarantena vorremmo aver lottato di più per la legalizzazione delle droghe leggere, 'cidenti 'cidenti 'cidenti – negli USA le code si allungavano anche fuori dalle armerie. Se immaginiamo un'America priva di potere centrale, possiamo pensare alla Libia che ci siamo lasciati dietro, arsenali pubblici e privati che basterebbero da soli a conquistare il Canada.

Sto parlando delle premesse, non del romanzo. Le premesse sono che il mondo è in fiamme o in miseria, e nell'Artico è sorta una città artificiale chiamata Qaanaaq, composta da otto settori tenuti insieme dall'ingegneria, regolati da un complesso sistema di algoritmi. Non c'è un governo, c'è solo il programma – e infatti è tutto immobile.
Qaanaaq può essere vista come un ulteriore angolo di inferno sulla terra o come la terra promessa, a seconda della prospettiva. La capillarità del programma permette una libertà di movimento inedita che scaturisce direttamente dall'inceppo della burocrazia. È affollata, povera, piena di gente che è fortunata a occupare spogli container. È anche viva e veloce e sferzante. C'è un programma radio che la racconta quotidianamente, che mette in fila l'idea che sta alla base di Qaanaaq raccontandone qualche stralcio. Non si sa chi scriva i testi, e i lettori cambiano sempre.



A Qaanaaq si muovono diversi personaggi. Soq, il mio preferito, è un ragazzo genderfluid invischiato con la malavita locale, una specie di corriere. Con Qaanaaq ha un rapporto di amore e odio. C'è Fil, che mi viene da definire, in sostanza, un povero stronzo; perché è giovane e bello e ricco, ma non riesce a trovarsi. È uno degli eterni perduti, senza bussola. E ha contratto quello che chiamano Frantumo, una particolare malattia sessualmente trasmissibile che fa impazzire poco a poco, e per cui non esiste una cura. C'è Kaev, che lotta sulle travi contro avversari sempre più giovani di lui – già piagato dal Frantumo – e perde per denaro. E la sorella Ankit, inquadrata nei meccanismi ufficiali di Qaanaaq, segretaria di un'amministratrice. Sono i personaggi cui le cose, almeno all'inizio, ruotano attorno.

Succede che a Qaanaaq arrivi una donna a cavallo di un'orca, con un orso polare al suo fianco. Vuole qualcosa, cerca qualcuno. È una terrorista famosa, ha fatto esplodere delle navi da guerra con l'aiuto dell'orca, con la quale ha un legame profondo – che verrà spiegato poco a poco. Sono in gioco diversi poteri, diverse volontà e diverse capacità di movimento. Tutto scorre. A secchiate.

Il genere. Di hopepunk ho già chiacchierato, e con toni vagamente profetici ed entusiastici. L'hopepunk è un genere di cui abbiamo schifosamente bisogno. Hopepunk vuol dire ammettere che ok, le cose fanno schifo. Fanno veramente schifo. Ma significa anche e soprattutto accettare di potere e volere fare qualcosa per cambiarle. Ho dovuto superare più di metà romanzo per trovare un briciolo di speranza; prima era tutto miseria e ricordi avvelenati, gente morta o morente. Nell'hopepunk la speranza non sta nella mistificazione, ma nell'azione una volta preso coscienza del contesto. Come canta la sigla di Kenshiro, “Keep you burning”.
(che è un po' la colonna sonora ufficiale della mia quarantena, con la silenziosa accettazione della coinquilina che si becca tutte le mie playlist sparatissime).



Ci sono aspetti particolarmente interessanti del romanzo che ancora non ho nominato; la visione di Miller è usa-centrica, perché racconta soprattutto lo sfacelo degli USA, mentre quello del resto del mondo è dato per scontato. C'è un'attenzione particolare sul corporativismo selvaggio e indiscriminato, sulla preminenza degli interessi finanziari ed economici sui diritti basilari delle persone – e cristo se ce ne stiamo accorgendo; fa strano sentirsi privilegiati solo per il fatto di abitare in un paese in cui la vita umana ha un valore riconosciuto e inoppugnabile all'interno del codice civile. Da un lato si punta il dito alla completa liberalizzazione delle pratiche di mercato, dall'altro si parla delle guerre degli affitti – che negli USA sono altissimi, il landlord è una figura tossica come potrebbe essere un signore feudale; girano lettere orribili mandate dai padroni di casa agli americani quarantenati, che sottolineano come alla fine freghi sega della situazione eccezionale, l'affitto va pagato il primo del mese, piuttosto morite di fame – manca solo l'intestazione “poveri pezzi di merda, così imparate a non essere ricchi”. In risposta c'è una forte mobilitazione di affittuari che si organizzano tra loro e mandano lettere collettive, un fenomeno che seguo da lontano e con interesse.
Il lato positivo delle crisi è che smascherano le priorità e i rapporti di potere. Scoprono le carte. Gli ultimi e i penultimi non possono distogliere lo sguardo da un sistema di leggi che li vede al meglio come vittime sacrificabili, al peggio come nemici interni a cui imputare uno stato di cose disastroso – qui ci sarebbe tutto un discorso da fare sulla politica del decoro, sulla gentrificazione etc ma rimando a un prossimo post, che sto leggendo La buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski e, come dire.



La città dell'orca racconta il futuro e parla di noi. L'ambientazione è complessa, scienza e tecnologia si incastrano in un contesto povero ma non umile. Il ritmo è frenetico, le svolte rapide. Capita che i personaggi si muovano più come agenti che come persone, all'interno di una trama dinamica che non smette mai di correre – è la danza frenetica di Qaanaaq, non si ferma. Mette il mondo in prospettiva, disegna una lotta, una possibilità. La presa di posizione è evidente ed esplicita; e magari a certi potrebbe non piacere, c'è una tendenza a pensare che la verità stia nel mezzo, che le zone grigie siano più di quelle nette – non è neanche falso, come assunto, ma dare per scontato che nessuno abbia torto e nessuno abbia ragione rende il dibattito sterile, avvilisce l'etica, disarma. È il riserbo a prendere una posizione e assumersene la responsabilità intellettuale ad aver creato un contesto in cui pure l'affermazione “LASCIARE MORIRE LA GENTE È CRIMINALE” è fonte di dibattito, quindi concluderei con un sentito “stocazzo” e inviterei alla lettura, alla messa in dubbio dello status quo e quant'altro.
(tipo, il capitalismo fa schifo).