Più gentile della solitudine di Yiyun Li

Un paio di mesi fa incrociavo Yiyun Li sugli scaffali della biblioteca – ricordavo il titolo riportato sul comunicato stampa di NN, casa editrice di cui osservo i maneggi con interesse, peccato finisca per dimenticarmi di richiederne i materiali – nella forma di Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua, e l'ho preso senza neanche prendermi la briga di dare un'occhiata alla quarta di copertina – sia benedetta la gratuità delle biblioteche.
Perché se avessi letto qualcosa di più su Caro amico, forse avrei accantonato l'idea di leggerlo. È un'opera ampiamente autobiografica, ricca di riflessioni sulla vita, le persone e la letteratura, scritta da Yiyun Li in seguito a un esaurimento e a un tentativo di suicidio. E a me le opere biografiche e autobiografiche non è che facciano impazzire – o forse mi farebbero impazzire, se mi convincessi a leggerne qualcuna. Tant'è.



Di Caro amico mi sono innamorata e ho capito che sarebbe stato a grandi linee lo stesso per buona parte della produzione artistica di Yiyun. Infatti non sto per parlare di Caro amico – vorrei, ma ho dovuto riportarlo in biblioteca perché il prestito era scaduto, e non mi piace parlare di libri che non ho sott'occhio; mi preparo a chiacchierare di Più gentile della solitudine, edito da Einaudi nel 2015 nella traduzione di Laura Noulian, il mio secondo – e splendido – incontro con Yiyun.

Più gentile della solitudine inizia ai giorni nostri, a Pechino con la morte di una giovane donna di nome Shaoai in seguito a quella che viene inizialmente descritta come una lunga malattia, e che presto si scoprirà essere qualcosa di più. Ad assisterla c'è un amico di infanzia, Boyang, uno scapolo d'oro, uno di quelli che hanno saputo trarre vantaggio dal boom economico in Cina e che gonfiano le file dei nuovi ricchi. Della morte di Shaoai ha avvertito due donne che vivono lontano, in America, alle quali è stato vicino una vita fa. Moran che fa la ricercatrice per un'azienda cosmetica, Ruyu che per vivere si accoda alle esigenze di famiglie benestanti e diventa per loro una figura tra un'amica e una domestica. L'inizio del romanzo, incentrato su Boyang e sul suo punto di vista, ci suggerisce un'amicizia stretta e un'estate spensierata, un ricordo di innocenza incontaminata interrotto da un evento drammatico i cui strascichi si allungano sulle vite dei personaggi coinvolti, a decenni di distanza.




Poi conosciamo Moran e Ruyu, i loro passati imperfetti, le fughe repentine da Pechino. Ruyu è un'orfana lasciata alle cure di due anziane prozie profondamente anaffettive, che non le hanno trasmesso nulla se non la riprovazione per l'umanità e un rapporto morboso col divino. Viene mandata a studiare appena quindicenne presso la famiglia di Shaoai, nel cui caseggiato abitano anche Boyang e Moran. Come tutti i personaggi presenti nel romanzo – almeno, quelli su cui si posa l'attenzione indagatrice di Yiyun Li – Moran è un personaggio fortemente ambivalente, ma in modo più sottile rispetto agli altri. La conosciamo dapprima come una donna algida e scostante, che ha fatto della solitudine un caro rifugio. Eppure da ragazzina, soprattutto per come viene raccontata da Ruyu e da Boyang, appare solare, vivace, un'allegra sempliciotta. La sua disillusione di fondo è forse il dramma secondario più doloroso di tutto il libro.

Buona parte del romanzo è ambientata in un passato storicamente significativo. Siamo a Pechino nel 1989, subito dopo gli scontri di piazza Tienamnem, cui Shaoai ha preso parte da studentessa politicamente impegnata. Le sue invettive cadono nel vuoto di una famiglia che preferisce tenersi al riparo dagli occhi del governo. Litiga, accusa, sottolinea ferocemente la sua indipendenza morale. Nessuno è in grado di risponderle. A Ruyu la politica non interessa, Boyang e Moran vogliono evitare problemi e prendono parte senza dare problemi alle celebrazioni governative col resto della scuola. In sottofondo ai drammi personali di Boyang, Ruyu e Moran, avviene la storia – quasi in sordina, non fosse per Shaoai.



È difficile spiegare cosa renda speciale la scrittura di Yiyun Li. Leggendo mi è venuta in mente un'immagine stupida, Yiyun Li, Catherine Lacey e Veronique Ovaldé che prendono un caffè insieme e non si rivolgono la parola per tutta la durata dell'incontro. Hanno in comune qualcosa che me le fa accostare in un'idealizzazione antisociale, la visione spietata che hanno dell'umanità scrutata dall'interno dei loro personaggi, il raschiamento dalla narrazione degli autoinganni che ci permettono di vedere il mondo in un'ottica edificante. Elizabeth Strout, per dire, scava altrettanto profondamente nei suoi personaggi, e ce ne sono certi che fanno davvero schifo da vicino e in prospettiva. Eppure riesce a trovare qualcosa di bello nell'umanità anche quando è perduta e sofferente; nei suoi romanzi alla sofferenza si affianca una speranza di redenzione nelle traiettorie dei personaggi. Al suo mondo, seppure con fatica, si può sopravvivere senza appassire. La scrittura di Yiyun Li e del resto della triade che ho poc'anzi elencato pare piuttosto sottendere a una progressiva disillusione. È come se non potessero – o volessero – distogliere lo sguardo dalla maledizione insita nel concetto di esistenza; di riflesso, la vita dei personaggi non può che manifestarsi in un doloroso travaglio. La luce che pure riesce, talvolta, ad accendersi, ha un che di fragile, e non porta significati profondi; è una bella luce, fine a se stessa, che a volte non verrà nemmeno vista.