Se
volessi parlare solo dell'articolo di Massimiliano Parente e di quello che ne
penso – cosa se ne può pensare, ragionevolmente? Si intitola
Social, sessiste e carine – Ecco le influncer (modaiole) del
libro e basta quello –
potrei farla brevissima. Ne ha scritto Paolo Armelli su Wired, proponendo un riassunto incredibilmente sobrio di una selva di
argomenti usati a caciara, e non ho niente da aggiungere.
Non
voglio neanche mettermi a difendere la categoria bookblogger, sia
perché si parte da affermazioni così improbabili da non necessitare di un contraddittorio, sia perché la nefanda comunità delle
influencer modaiole non ha bisogno che mi erga a difenderla –
linko giusto il commento di Carolina Capria, citata nell'articolo di
Parente. Mi piacerebbe tornare sul ruolo dei blog, sugli standard e la responsabilità di chi scrive, ma è materia per un altro post – già qui entriamo nel magico mondo del longform.
Quello
di cui mi preme discutere non è l'articolo in sé, ma un
aspetto specifico della reazione che ha scatenato. Non entrerò nel merito di industria culturale, letteratura e sessismo, né dirò la mia come bookblogger – non adesso, almeno. Niente di così dignitoso, è
che tutta la faccenda mi ha toccato proprio laddove sono più sensibile, ovvero nel profondo del fandom. Sono queste le cose che mi tirano alla polemica – non ne vado fiera, beninteso. Oggi cercherei di uscire dall'ambito
editoriale e letterario che di norma mi compete – e nel quale sto
parecchio comoda – per concentrarmi su un fenomeno culturale, la
cancel culture – termine in cui sono incappata di recente.
L'unico punto in comune tra questo blog, il cui scopo fondamentale è
parlare di libri, e l'argomento che tratterò – male – è che
nasce tutto da un articolo che parla – malissimo – di
bookblogger. E devo allontanarmene così tanto che, nonostante sia la
fonte, è un legame parecchio flebile.
Innanzitutto,
cos'è la cancel culture? Su Esquire, Enrico Pitzianti la descrive
come
l'insieme di comportamenti collettivi tesi a eliminare dal loro ambiente lavorativo quei personaggi accusati di comportamenti immorali, soprattutto molestie sessuali e quelli che in inglese ricadono nella categoria di “sexual misconduct”. La cancel culture si differenzia dalla “call-out culture” proprio perché l'obiettivo non è limitato all'accusare pubblicamente di immoralità, o di reati veri e propri, una persona (quasi sempre un personaggio pubblico) ma oltre all'accusa pubblica c'è la volontà di fargli perdere la posizione professionale.
Trattandosi
di uno strumento rapportato a un fine, la bontà del canceling
dipende da quel fine, e quindi dal caso singolo. Torniamo a Parente;
per la posizione privilegiata – almeno comunicativamente – che
ricopre scrivendo su una testata nazionale, e il calibro delle affermazioni di cui è pienamente responsabile, trovo plausibile che si possa scatenare un'azione di canceling. Personalmente
mi pare un po' una misura un pelo estrema, ma a me viene da
empatizzare coi peggio umani e non faccio testo. Anche qui verrebbe da
aprire una parentesi per discutere sui concetti di libertà di espressione e di opinione, che sono sacrosanti ma non vanno confusi con
la libertà di sparare qualsivoglia boiata impunemente. Parente da scrittore e giornalista ha fatto l'uso che riteneva opportuno del suo diritto
di parola; se gli va di provocare – e ci si è gettato a pesce che
manco su 4chan – sdegno, si diverta con le conseguenze –
contento lui. Posto che le modalità del canceling non dovrebbero sfociare nella molestia o nel bullismo indiscriminato.
Ancora
un passo indietro; come sono venuta recentemente a conoscenza della
cancel culture, e perché mi interessa così tanto?
Qualche
mese fa sull'Indiscreto usciva un mio articolo incentrato su Natalie
Wynn e il suo canale Contrapoints, che consiglio
moltissimo a chiunque si interessi di temi politici, sociali ed
economici, cultura queer, teoria di genere e quant'altro*. Natalie
affronta una lunga serie di argomenti scomodi che la toccano più o
meno da vicino, con un approccio accademico e filosofico, riuscendo
ad analizzare razionalmente e perfino con empatia prospettive
discutibili quanto quelle di Parente.
Natalie
è una donna transgender che per anni si è identificata come non
binary. Nei suoi video ha raccontato diffusamente della sua
transizione, di disforia di genere, e ha preso spesso le parti delle
minoranze interne alla stessa comunità trans – perché pure
all'interno della comunità trans, c'è qualcuno che si sente più
trans degli altri e ci tiene proprio che gli venga riconosciuto.
Ciò
nonostante, al momento Natalie è disconosciuta da una larga fetta di
comunità transgender. Le accuse, piuttosto deboli, riguardano il
mancato riconoscimento dei non binary transgender, nonostante Natalie
si sia identificata a lungo come tale e abbia dedicato un intero video a smontare l'impalcatura ideologica dietro i pregiudizi sulla
categoria dei cosiddetti transtrenders. Il suo nome è così velenoso
che ha lavorato da sola a tutto il video sulla cancel culture, un'ora e quaranta minuti di attenta analisi del
fenomeno vissuto direttamente sulla sua pelle, perché voleva evitare
che eventuali collaboratori finissero nel baratro con lei. È un
video crudo e personale, in cui Natalie non nasconde il proprio
dolore e la propria frustrazione. Dopo aver visto il video, ho deciso di guardarmi intorno su twitter per farmi un'idea della portata del
fenomeno, e sono rimasta abbacinata dal numero sproporzionato di
utenti pronti a colpire Natalie ancora più forte senza la minima intenzione di ascoltare la sua versione dei fatti, con la spietata
convinzione di essere nel giusto. Contrapoints è un canale youtube
con più di 800.000 iscritti, il che rende il ruolo di Natalie
privilegiato rispetto al pubblico. Ma il privilegio non è una
condizione soddisfacente per dare il via a una gogna mediatica – intendiamoci, oltre una certa soglia di ingiustizia cambiano pure le regole, ma diamine se non è questo il caso.
Dunque
torniamo al caso di Parente, a quello che può c'entrare con la
cancel culture – che pure è stata tirata fuori in mezzo al marasma
su twitter.
All'articolo
è seguita una reazione, a cui è seguita una controreazione che in
certi casi è stata di una pochezza imbarazzante – Burioni,
domineddio. In altri casi gente che non c'entrava granché si è
trovata a doverne affrontare le conseguenze come se la responsabilità
personale di Parente li avesse contagiati.
Gipi
è stato tirato in mezzo da Parente, che nell'articolo ha accennato
in modo piuttosto raffazzonato al fatto che giocano insieme a Call of
Duty. Fossi in Gipi ce lo manderei fortissimo, ma non sono Gipi e la
cosa non mi compete. C'è finito in mezzo anche Nicola Lagioia che è stato taggato da Parente in un tweet in cui citava Bret Easton Ellis – dickmove dopo dickmove – e ha
commentato frettolosamente in difesa di Ellis – è stato cazziato,
ha riconosciuto di essere stato poco attento nel rispondere, si è
pronunciato sul pezzo e spero che per lui la faccenda sia chiusa.
In
qualità di intellettuali, Gipi e
Lagioia sono stati chiamati a prendere le
distanze dall'articolo e soprattutto dal giornalista, richiesta che mi pare un filino impropria. Ed è questo il punto in
cui qualcosa si inceppa. Pretendere che qualcuno si pronunci nei nostri tempi su una determinata questione perché abbiamo deciso che
quello
è il ruolo dell'intellettuale, e quello
deve fare "altrimenti", è – non
riesco a metterla diversamente – sbagliato. Sia perché è ingiusto
gettare qualcuno in una fossa scavata da un altro, sia perché non
possiamo dettare agli intellettuali la posizione che devono ricoprire
all'interno del discorso culturale. Un altro problema è che si
finisce per accomunare a tutti la stessa colpa, si promuove la
visione di un nemico unico, e si crea un contesto in cui ogni crimine
è assimilabile all'altro senza gradazioni di gravità. Ma le cose
vanno messe in prospettiva; Gipi non gioca a Call of Duty con Kim
Jong Un condonando la dittatura in Corea del Nord. Si possono
ascoltare i Burzum senza essere nazisti – a me Varg starà sempre intrinsecamente on the rocks, ma se mi piace il mondo vario, me lo
faccio andare bene.
Finisce
che l'indignazione – giusta – si disperde in tanti rivoli, ed è un peccato. Perché si potrebbe aprire una seria discussione
sul fatto che le pagine culturali di diverse testate nazionali
pubblichino contenuti di un'incompetenza imbarazzante che manco sul
blog personale di una quindicenne. Si potrebbe questionare la linea
editoriale del Giornale, che ha molte più responsabilità su quello
che pubblica rispetto a un fumettista che è stato citato tra una
virgola e l'altra, o chiedere a chi scrive su altre testate di
approfondire con cognizione di causa il tema del sessismo in
letteratura e del ruolo dei nuovi media nella diffusione della lettura** – che già definire i blog nuovi media fa strano. Le azioni di protesta e boicottaggio
sono spesso nobili e talvolta perfino utili*** – come nel caso della
partecipazione di Altaforte al Salone del Libro – ma quando
vengono messe in atto è importante non perdere di vista chi è il
nemico e cosa si vuole ottenere. Il mondo è un posto feroce e a
volte bisogna smussargli le unghie****. Ma non sta a noi decidere chi
debba addossarsi questo compito, stabilire chi debba occuparsi di
cosa.
Chiamo in causa la Treccani a dare una definizione di
intellettuale all'interno della sfera pubblica,
un gruppo o èlite formato da individui di diversa classe sociale, accomunati da una cultura o un'istruzione superiori [] i quali godono della pubblica stima e sono considerati depositari di valori culturali universali che trascendono gli interessi personali e i pregiudizi partigiani,
e chiudo
con un'ultima postilla che rimanda a una lettura che mi attende da
settimane nella libreria della mia coinquilina – soon – ovvero La
buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski, edizioni Alegre
– in cui spero di trovare una razionalizzazione che vada oltre il
mio rigurgito di bestemmie all'imperativo della cortesia associata a
qualsivoglia protesta, purché venga da sinistra
(come sottotitolo ci starebbe bene anche La maledizione di
D'Alema). Trovo sia molto facile, quando non si è toccati
personalmente da una condizione iniqua, dettare le modalità di
discussione – calma, imperturbabile e distante. Siamo tutti bravi a
discutere pacatamente con persone le cui convinzioni non ci
minacciano e non ci sminuiscono per poi stupirci se guarda caso, i
bersagli giustamente si incazzano. Il sessismo discreto – e forse
inconsapevole – di Parente non tocca di sbieco molti di quelli che
si sono affrettati a difenderlo e a condannare i toni accesi delle
omg femministe. Ma non stupiamoci se qualcuno dall'altro lato del privilegio si incazza.
(nel frattempo – me la sono presa comodissima prima di postare – ha chiacchierato della faccenda anche Susanna Raule su Esquire).
*sono una fangirl, lo so e non posso farci niente.
**ho scritto questo pezzo nelle 48 ore successive all'articolo di Parente, nel frattempo la questione è stata affrontata da varie testate e in certi casi con pregevole cognizione di causa.
***di rado, purtroppo.
****sono
stata fiera di questa frase per cinque minuti e ne faccio ammenda
lasciandola lì. Suona terribilmente come “la vita è un biscotto,
ma se piove si scioglie”.