The Irishman di Charles Brandt


The Irishman, da poco uscito per Fazi, è stata una lettura stranamente scorrevole, in barba al discreto volume del tomo e al tema tutt'altro che allegro, peraltro da una prospettiva non poco disturbante. La voce narrante è quella di Frank Joseph Sheeran, detto l'Irlandese. Un vecchio ex-sindacalista ed ex-killer della mafia che a più di quarant'anni dall'omicidio di Jimmy Hoffa accetta di farsi intervistare dall'avvocato e investigatore Charles Brandt, che ha condensato le loro innumerevoli conversazioni nella forma cronologicamente e logicamente comprensibile che ho appena finito di leggere. L'ultima intervista risale a una settimana prima della morte di Frank, nel 2003. Coincidentalmente domani – scrivo la sera per rileggere al mattino – uscirà su Netflix il film di Scorsese tratto dallo stesso libro, e già lo paragonano a The Goodfellas. Le mie cine-aspettative saranno alte.




Il caso Hoffa è stato a lungo uno dei grandi misteri della storia americana, non meno dell'omicidio dei Kennedy – di cui peraltro si parla, Bobby e Hoffa si odiavano di cuore. Ne parla pure Ellroy nei suoi romanzi, difatti è grazie a lui se negli anni delle superiori sono riuscita a farmi una cultura della criminalità organizzata in America – e di rimbalzo della sua storia politica dagli anni '50 a Nixon. Grazie James. Anche degli incubi.
James Riddle Hoffa è nato a Brazil, nell'Indiana, nel 1913. Ha vissuto la grande guerra, la grande depressione, poi un'altra guerra più grande della prima. Nel ruolo di sindacalista e difensore dei lavoratori è stato famoso come un divo del cinema. Era pesantemente colluso con la mafia, e manovrava le sezioni del sindacato – i Teamsters – come fossero pedine. Non è che non gli interessasse la causa, gli interessi degli iscritti erano blindati, e Hoffa aveva iniziato dove stavano loro. Coi fondi pensione c'era da guadagnare cifre astronomiche, ma Frank Sheeran non racconta di un Hoffa avido di denaro, ma malato di potere. Viveva frugalmente, roba che lo si poteva scambiare per un normale impiegato, ma aveva bisogno del potere, del controllo. Aveva stretti rapporti con la mafia italiana, soprattutto col clan di Russell Bufalino. È così che ha conosciuto Frank Sheeran, li ha fatti incontrare lui, quando Frank ha fatto domanda per poter lavorare col sindacato. Chi bazzica reddit e pagine di meme politici internazionali, saprà che i sindacati negli USA hanno una pessima reputazione. Finalmente riesco a spiegarmi le ragioni di tanta diffidenza – che comunque nel grande schema delle cose mi sembra un pelo auto-castrante, ma non voglio divagare.




Scorsese in Taxi Driver ha raccontato quello che la guerra fa all'essere umano. Lo abitua all'orrore, lo riempie di incubi e paranoie, mette alla prova la sua morale. Dopo il Vietnam, alla narrazione autoconsolatoria della guerra eroica si è affiancato un racconto diverso, quello delle conseguenze del conflitto sull'individuo. Ci pensavo, mentre leggevo degli anni che Frank ha trascorso in Italia a combattere i nazisti. I fatti sono agghiaccianti, con tanto di ufficiali che fanno fucilare centinaia di prigionieri di guerra. Ha visto morire decine di commilitoni, e con tutto il tempo passato in prima linea, è un miracolo che non sia capitato anche a lui. Se The Irishman fosse un romanzo che con la realtà non ha niente a che fare, traccerei una linea retta tra gli anni di Frank sotto le armi e le opinabilissime scelte che ha fatto più avanti. Ma Frank è reale anche da morto, e su di lui non posso immaginare di dispiegare un'accurata parabola del personaggio con la presunzione di potermi dare ragione. Quello che gli ha fatto la guerra, rimane affare suo.

Frank è nato nel 1920 a Darby, in Pennsylvania, in una famiglia irlandese parecchio cattolica. Il padre beve, e quando Frank ha dieci anni lo fa combattere contro ragazzi più grandi per scommettere su di lui e scroccare da bere. Frank capisce in fretta che vuole togliersi di casa e scappa con un circo itinerante. Ammetto che sono riuscita a non pensare al punto centrale del libro, mentre leggevo della gioventù di Frank. C'erano un sacco di lavoro duro, balli e occasionale violenza, mi faceva pensare a Jack London. Poi c'è stata la guerra, un rincorrersi di lavori che Frank perdeva facilmente – come truffatore era parecchio abile, ma se fai la cresta sui quarti di bue prima o poi ti beccano. E poi la prima famiglia, l'inizio del rapporto con la mafia italiana, con cui ha legato tanto bene perché ha combattuto in Sicilia. Il sindacato, Hoffa, tutto il resto.



Frank Sheeran ha fatto cose terribili, e il suo schema di valori – tra i vari regolamenti di conti si accenna a negozi dati alle fiamme e a impresari gambizzati, in una scala cromatico-etica dal bianco al nero siamo sul catrame – è agghiacciante. Spaventa perché spesso Frank è una persona piacevole, sensatissima. Avrebbe avuto una vita avventurosa anche senza metterci di mezzo la malavita. Ha fatto cose tremendamente sbagliate pur essendo in grado, almeno credo, di riconoscere il giusto. Frank ha affermato che tornando indietro non rifarebbe quello che ha fatto. Eppure ci sono morti per le quali non sembra provare il minimo rimorso. Continuava a frequentare i clan mafiosi anche durante le interviste con Brandt, qualche volta lo portava con sé. Ha fatto cose terribili in nome di una lealtà impropria, un ideale condensato nella figura dell'uomo che gli ha dato tutto, Russell Bufalino. Voleva bene a Jimmy Hoffa, e il dolore si sente.
Non credo riuscirò mai a capacitarmi davvero di tutto quello che è raccontato in questo libro.