Transiti di Rachel Cusk


Transiti di Rachel Cusk l'ho preso d'istinto, come mi capita negli ultimi tempi, e volente o nolente mi è balzato in cima alla lista di quello che avevo voglia di leggere, lasciandosi dietro un'ecatombe di libri lasciati a metà. Avevo una vaga idea di cosa aspettarmi, non perché ne avessi letto qualcosa, ma perché mi pareva si accompagnasse sempre a una certa narrativa femminile contemporanea, quella lucida e cruda che al momento in Occidente sta spopolando. Di che parlasse, non è che sapessi granché, avevo giusto il titolo a guidarmi – anche perché evito le quarte di copertina come la peste, capita che ti facciano un sunto delle prime cento pagine e signori editori, gradirei non mi spiattellaste mezza trama che io il libro lo vorrei leggere, grazie.


Dunque, Transiti. Una serie di narrazioni indipendenti le une dalle altre, spezzoni di vita raccontati in prima persona sempre dalla stessa voce, che poi sarebbe quella di una scrittrice divorziata con due figli appena tornata a vivere a Londra. Difficile dire se si tratti di fiction, auto-fiction e quanto in questo caso sia forte il peso della biografia. Su Rivista Studio, Cristiano de Majo dice che il libro sembra “un tentativo di superare le categorie fino a questo momento conosciute”, e credo di essere abbastanza d'accordo, anche se non è detto che si tratti di un tentativo fiondato verso un chiaro obiettivo; Rachel Cusk potrebbe avere deciso semplicemente di infischiarsene, - e secondo me ha fatto bene.

Mentre leggevo, e soprattutto arrivata al racconto di una particolare scena, pensavo che avrei intitolato la recensione Rachel Cusk non c'è; non in senso dispregiativo, ma perché di rado ho incontrato una narratrice capace di ritrarsi così dalla pagina, e dire che si tratta di auto-fiction – e voglio dire, nessuno ti ha chiesto di scrivere di te, potevi fare come fanno tutti, fingere di scrivere di ideali universali attraverso personaggi immaginari, pur sapendo benissimo che se li avrai amati abbastanza ti faranno da specchio distorto. Messa così può sembrare che non abbia apprezzato né il libro né lo stile di Rachel Cusk; tutt'altro. Solo che, pur apprezzando l'opera, non ne capisco fino in fondo l'approccio. La scrittura di Transiti è schietta, secca, descrittiva come una sceneggiatura. Si dilunga sui dialoghi e sui gesti che li accompagnano, la telecamera negli occhi del narratore puntata su chi sta parlando. Capita che Rachel dica la sua, mentre parla a un altro personaggio. Capita più spesso che di sé non riveli che il necessario.



Il punto in cui l'effetto mi è stato più chiaro è il racconto di una conferenza tenuta insieme ad altri due famosi scrittori dedicata all'autobiografia. Assistiamo all'incontro e alla presentazione col moderatore e poi coi due colleghi. Poi ci spostiamo sul palco, fradici perché ha piovuto terribilmente, e i due scrittori monologano entusiasti delle loro opere, fornendo dettagli molto personali delle loro vite e offrendo, soprattutto, visioni opposte e parimenti plausibili della scrittura, del processo creativo. Di quello che vuol dire scrivere. E poi tocca a Rachel, e Rachel potrebbe dirci cosa ne pensa, e invece ciccia, la conferenza finisce e il moderatore fa il sordido e poi niente, puntata finita e di come la pensa Rachel lo sanno solo quelli che si trovavano alla conferenza. A scanso di equivoci, è un pezzo che mi è piaciuto moltissimo.

Rachel Cusk racconta, o descrive, sebbene sarebbe più corretto dire che interpreta, perché anche la voce che pare più obiettiva ha già preso una chiara posizione nel momento in cui ha scelto di cosa parlare; prende pezzi di vita lunghi ore o pochi giorni, l'appuntamento con un'amica in un caffè, una cena da amici con un concetto di genitorialità agghiacciante, l'incontro con una studentessa che vuole chiederle consigli su come scrivere quello che così evidentemente vuole scrivere senza davvero volerlo fare. Rachel Cusk ha una visione acuta, aguzza, precisa. E non vorrei mai trovarmi sotto il suo sguardo; tempo fa ho letto I fratelli Burgess di Elizabeth Strout, e mi è capitato di pensare che alcuni personaggi le fossero stati ispirati da persone reali, soprattutto Bob. Non avrei paura a trovarmi sotto lo sguardo di Elizabeth Strout, né di Elizabeth Jane Howard o di tanti altri scrittori. Invece sulla pagina di Rachel Cusk non vorrei mai trovarmici. La sua scrittura ha la brusca sincerità di uno schiaffo che ti riporta coi piedi per terra, quello che quando ci vuole, ci vuole – ma speri non ci voglia mai.