I formidabili Frank di Michael Frank


I formidabili Frank di Michael Frank è uscito per Einaudi – nella traduzione di Federica Aceto – nel 2018, bypassando completamente i miei radar editoriali. Un mesetto fa l'ho preso in biblioteca, pescandolo un po' a caso basandomi unicamente sul fattore novità e sul fattore casa editrice che di solito non rifila sòle.
(di solito).
Poi ne ho letto in giro un paio di lodi sperticate, e mi sono detta che dovevano essere meritate, visto che riguardavano un romanzo uscito da un anno, e di norma quando si imbastiscono venerazioni letterarie vuote è per i classici o per i casi editoriali freschi di stampa. I formidabili Frank, visto così, mi prometteva bene. E ha ampiamente manutenuto.


Si tratta di un'autobiografia, la storia di Mike fin dalla prima infanzia, il racconto di com'è diventato la persona che è adesso. Il punto centrale e cruciale è il suo rapporto con gli zii, e soprattutto con la zia Hank. Partiamo col dire che il nucleo ristretto di Mike è legato a doppio filo – di ferro – con gli zii; un fratello e una sorella, come indica il retro di copertina, hanno sposato una sorella e un fratello. E già qui è facile identificare una prima anomalia, che potrebbe fermarsi lì e restare una bizzarria anagrafica, e invece è come un morbo che parte da casa degli zii e avvelena la famiglia del primo infetto, Mike.

Gli zii sono splendidi, brillanti, una costante fonte di stimoli intellettuali e intrattenimento. Una coppia che ha fatto del suo meglio per convincerlo di quanto fosse fortunato e speciale a essere nato in quella famiglia, in cui per esprimere un giudizio sugli altri veniva usato liberamente il termine standard, come si dovesse testare la stagionatura di un formaggio. I genitori di Mike sono abbastanza normali, dopotutto. Il padre ha un pessimo temperamento e le sue sfuriate fanno paura, ma almeno non è violento. La madre è dolce e un po' passiva, i due fratelli minori all'inizio sono solo comparse, figure di contorno. A nove anni Mike li guarda con gli occhi sprezzanti della zia, secondo la quale uno studierà per diventare medico e l'altro sarà un atleta. Non hanno, secondo lei, temperamento artistico e profondità di pensiero – anche perché all'epoca avranno avuto tra i cinque e i sette anni. La zia non ama i suoi nipoti allo stesso modo. Mike è il suo preferito, il suo diletto, il suo migliore amico. Un figlio rubato dalla culla col benestare di genitori ignari.


Zia Hank e suo marito, zio Irving, non possono avere figli. Mike per loro è questo, e da sceneggiatori di successo, creativi istrionici ed esuberanti, che vedono la vita come un palcoscenico, hanno preso Mike da piccolo e hanno deciso – o meglio, zia Hank ha deciso – di strutturarlo come fosse un'opera, inculcandogli specifici gusti, determinate ideologie, una cultura vastissima ma fortemente parziale. Mike è il prodotto della loro influenza, e va benone finché è un ragazzino che ancora non sente il bisogno di reclamare una propria identità, e finché i fratelli sono troppo piccoli per comprendere la spiccata predilezione della zia, che tratta l'uno come un preziosissimo figlio e gli altri due come figli di lontanissimi parenti. I genitori si oppongono, fanno qualcosa. Intanto Mike ha continui dolori di stomaco che non si spiegano. Intanto a scuola le cose gli vanno malissimo, perché se fanno di te un raffinato estimatore di Shakespeare a nove anni, è probabile che il tuo compagno di banco decida di usare la tua testa come palla da basket.

E Mike cresce, con tutti i suoi problemi. I nodi vengono al pettine, la situazione si rivela nella sua piena morbosità, i tentativi di riportare le cose al giusto posto – zia Hank al centro perfetto della vita famigliare, lieta di assegnare le parti e dirigerla – da parte dello zio Irving appaiono giustamente insensati. Il problema è apertamente un problema. Mi sembra assurdo pensare che un uomo adulto – quanto avrà avuto Mike, durante la stesura del romanzo? Tra i trenta e i quarant'anni? - vada a ripercorrere la storia della sua vita e scelga come fulcro il rapporto con la zia; ma evidentemente quel rapporto è stato davvero centrale.


Più cresco e più mi rendo conto di quanto sia difficile emanciparsi completamente dalla propria famiglia di origine. Non che ce ne sia sempre e indistintamente bisogno; a volte i modelli comportamentali sono giusti e sani, la vicinanza non risveglia sedimenti di circoli viziosi, non ci sono buche in cui cascare e rompersi un'anca. A volte. Ma il fatto è che la famiglia è qualcosa che ci portiamo dentro a prescindere da come ci poniamo di fronte all'educazione che abbiamo ricevuto, - educazione nel senso più ampio del termine. Anche se ci sono aspetti cui desideriamo con tutti noi stessi contrapporci, quegli aspetti rimangono un punto di partenza. Ho sempre pensato che la questione della mela che non cade lontano dall'albero fosse un'emerita minchiata, e lo penso ancora. Ma so anche riconoscere l'impronta formativa dell'essere nati da uno stesso terreno, dalle stesse radici, da un ramo che è parte di un tutt'uno. Puoi prendere lo slancio e saltare lontanissimo, ma rifiutare l'influenza è pura negazione. Michael Frank si è lanciato lontanissimo e con grande fatica, ma non ha mai distolto lo sguardo dall'albero. L'ha guardato fisso, l'ha studiato. L'ha accettato, - e ha fatto quello che gli pareva, com'è giusto che sia.

La figura di zia Hank è tragica, fragile, sa di disperazione. C'è un punto in particolare in cui Mike si rende conto per la prima volta del terrore che muove la necessità della zia di avere il totale controllo della situazione. Un burattinaio che muove troppi fili e che non può lasciarne andare nemmeno uno, perché... beh, vai a sapere di cosa avesse paura zia Hank. Abbandono, rifiuto, oblio. L'angosciante bisogno di legare a sé le persone con favori e regali sempre più dispendiosi, per ottenere in cambio concessioni sempre più importanti sulla vita delle persone, come se con un assegno stesse comprando delle azioni e pretendesse così il ruolo di socio di maggioranza. L'esistenza di zia Hank mi mette i brividi.

Forse ho scritto troppo, anzi, sicuramente ho scritto troppo. È un romanzo pieno, e tuttavia condensabile in un'unica citazione:

In un suo scritto Philip Roth deride Henry James perché ogni tanto dice che un suo personaggio si erge. E Roth si chiede: chi si erge mai nella vita reale?
Roth non aveva mai visto mia zia”.
Ecco.