Favola di New York di Victor LaValle, uscito il
mese scorso per Fazi Editore nella traduzione di Sabina Terziani.
Inizio dalla facile polemica, così poi posso dedicarmi al resto.
Prima di leggerlo mi aspettavo, da titolo, una favola. Una New York
che sfiorasse il realismo magico senza mai afferrarlo, una di quelle
storie in cui la magia soggiace senza intervenire, e quando
interviene lo fa in modo casuale, senza istanze pratiche e materiali.
Ma Favola di New York non è una favola, il termine non
rende giustizia alla profondità e all'orrore di questo romanzo. Il
titolo originale è The Changeling, impossibile da tradurre in
italiano, visto che ci manca un termine che ne riprenda l'esatto
significato. Un changeling è un bambino scambiato nella
culla, e questa definizione fa partire un ricco immaginario fatto di
folletti che sostituiscono neonati lasciando al loro posto una
creatura con le fattezze del bambino, e questo è il punto in cui il
termine favola si avvicina al romanzo di LaValle. Ma il romanzo non
si limita all'incanto e alla leggenda. La New York vissuta dal
protagonista Apollo non è affatto uno scenario da favola, i problemi
che riscontra sono fortemente ancorati alla realtà, fino al momento
in cui il mito subentra e provoca l'orrore, che travalica la favola.
L'idea che mi ero fatta di Favola di New York partendo dalle
informazioni immediate – copertina, titolo – non rispecchia
l'ispirazione terrificante del romanzo, la sua crudezza; e conosco
lettori che quella crudezza la inseguono disperatamente, ma in Favola
di New York non l'avrebbero
cercata.
Bene, chiusa la polemica, veniamo alla parte bella.
Il protagonista del romanzo è Apollo Kagwa, circa
trentenne, newyorkese cresciuto nel Queens. Cresciuto da una madre
single scappata dagli orrori della guerra in Uganda, non ha mai
conosciuto suo padre, se non nei ricordi di un sogno ricorrente. Ama
i libri di una passione che sento affine, e questo gli ha cucito
addosso una professione fin dall'infanzia, dal suo commercio di libri
e riviste usati che si è protratto senza tregua fino all'età
adulta. Ha un amico e collega piuttosto stretto, una moglie che ama
tantissimo – Emma – e un figlio in arrivo. Lo chiameranno Brian,
come il padre che non ha mai conosciuto. Inoltre, la questione è
ragionevolmente affrontata da LaValle, Apollo è un afroamericano
nell'America contemporanea – quella di Trump e dei poliziotti che
si sentono il coltello alla gola alla vista di un nero che passeggia,
e a quel punto che vuoi fare?, devi sparare. Quell'America lì.
La questione razziale non è preponderante, beninteso.
Ma è significativa perché mostra la differenza enorme tra
l'esperienza di chi vive New York da bianco e chi la vive da nero, e
stiamo comunque parlando di NY, non del paesello sperduto in Alabama.
Apollo non se ne fa un grande problema, ma LaValle non manca di
puntare il dito sulle differenze di prospettiva. La percezione
dell'uomo afroamericano come di una minaccia che cammina viene fuori
quando Apollo deve girare da solo, o in coppia con Patrice, nero e
per di più ex-militare parecchio grosso. Apollo sa che potrebbe o
potrebbero essere fermati e dover giustificare la propria presenza,
le proprie intenzioni. Sa che non potrà dire “Non riuscivo a
dormire e ho pensato di fare una passeggiata”, dovrà crearsi un
alibi e dovrà essere convincente, se non vorrà scontarla in
caserma.
Allegria, gente. Allegria.
Ma la trama. La trama, che diamine, è quella la parte
più interessante, piena di rimandi a leggende varie e stratificate.
E il modo in cui queste presenze interagiscono col nostro mondo
tecnologicamente avanzato e in qualche modo se ne servono, il
pericolo che non ha le immediate fattezze di un troll o di un
gigante, ma è quello di una sorveglianza continua e a tratti
volontaria, di chi non fa attenzione a proteggere la propria privacy
al giorno d'oggi.
Succedono tante cose, in questo libro. Succedono
lentamente – cosa che personalmente ho gradito – e per la prima
parte riguardano la vita umana di Apollo e della sua famiglia, la
loro vita umana. L'attesa, il parto, i primi mesi di Brian. Il
rapporto di Apollo con Emma, con la madre, la paura dell'essere
padre. David Lynch ha preso la sua fobia della paternità e ne ha
tratto forse il suo film più assurdo, Eraserhead. Victor
LaValle – la cui biografia ha molto in comune con quella del suo
protagonista – ha rielaborato le proprie fobie e le ha instillate
in un Apollo spaventato, senza una guida – dopotutto che ne sa di
come si fa il padre? – che teme per il futuro economico della sua
famiglia, che vorrebbe poter dare al figlio appena nato il mondo
intero e teme di non poterlo fare. L'orrore iniziale, fino a un terzo
del libro, è quello di un padre che si fa un sacco di paranoie, –
e proprio per questo ti dà l'impressione che sarà davvero un ottimo
genitore.
Poi l'orrore ha inizio, il mondo di Apollo si sgretola.
E allora che fare? Cercare. Nel presente, nel passato. E trova delle
risposte, trova dei vicoli ciechi e dei sentieri sbagliati. Inizia a
capire, e potrebbe essere troppo tardi.
(evito di dire altro, so che sono sibillina ma gente,
'sto libro se si gradisce il genere va letto in tutto il suo
mistero).
In Favola di New York accadono molte cose
impossibili; ma accadono anche tante cose possibili, e sono
affrontate con lo stesso rispetto, con una forte attenzione alla
plausibilità delle relazioni tra i personaggi. Se volessimo togliere
il fattore fantastico dal romanzo, rimarrebbe un'opera ben più
corta, ma comunque pregevole per come si muovono i suoi personaggi,
per le loro ansie e le loro debolezze. È uno di quei casi in cui la
magia non si mangia il resto della storia, ma la accompagna
parallelamente senza soffocarla.
E io ho apprezzato parecchio.