Quando leggiamo, va da sé, ricerchiamo l'empatia coi
personaggi che ci vengono presentati. Per vivere a fondo il libro
dobbiamo capirli, entrare in sintonia col loro sentire, provare
quello che provano. È per questo che leggere Lolita di
Nabokov mi è risultato intollerabile, è per questo che la
lettura di Il profumo di Suskind mi ha disturbata per giorni.
Sto leggendo molto, in questo periodo – non
abbastanza; c'è un abbastanza? – e sul finire del romanzo di cui
mi accingo a trattare – ci arriverò con calma – mi sono resa
conto di un aspetto che mi rende facilissimo scivolare in un libro
con la grazia di chi indossa le pattine sulla cera appena passata. È
una sensazione che ho provato leggendo Purity di Jonathan
Franzen e Le risposte di Catherine Lacey, e un
sacco di altri romanzi di cui non ricordo il titolo. È la
prospettiva interna di una ragazza-donna che si cerca ma non si
trova, che si perde nel momento stesso in cui inizia a cercarsi. Il
senso del mondo sfalsato, non tanto il non capire il mondo, quanto il capire di non capire il mondo.
È la prospettiva di queste protagoniste ad agganciarmi,
a prendermi per mano e trascinarmi dentro il libro, a vivere con loro
e vedere con loro. Mi prende la vicinanza tra le nostre confusioni, e
non posso fare a meno di immedesimarmi, e di cercare una risposta in
mezzo al loro vivere. Mostratemi i vostri passi falsi, tizie confuse,
così aggiusto il tiro dei miei.
La sorella cattiva di Veronique Ovaldé, dunque,
edito da minimum fax nel 2015 nella traduzione di Lorenza Pieri. Un
po' biografia – scritta da chi? Non si sa – e un po'
meta-romanzo, visto che la protagonista è una famosa scrittrice che
ha esordito con un romanzo auto-biografico intitolato proprio La
sorella cattiva, punteggiato da brevi capitoli pieni di immagini,
odori, impressioni sul mondo intorno. Veronique Ovaldé si prende
delle libertà che contrastano le regole dell'arte affabulatoria, ma
senza esagerare, senza mai sforare nell'ingestibile, nello
spiacevole, nel troppo che interrompe la lettura perché grida
“autore che vuole strafare” senza riguardo per il lettore che
vorrebbe pure godersi la trama.
La trama, dunque. C'è Maria Cristina Vaatonen che ha tra i venti e i trent'anni, una carriera avviatissima di scrittrice e una bella vita
in California; una gatta che si chiama Jean-Luc, una bottiglia di gin
sempre in fresco, una governante la cui presenza a volte la fa
sentire classista. Ha un passato ingombro di ostacoli, un'infanzia
soffocata dalla madre ultra-religiosa in un paesino che si destreggia
tra uber-cattolicesimo e la comunità dei mennoniti, un padre
assente, una sorella quasi gemella con cui intrattiene un rapporto di
amore e rivalità fino al fattaccio dei quattordici anni.
Il romanzo inizia con la madre di Maria Cristina che la
chiama per dirle che deve tornare a casa; la sorella Meena ha avuto
un bambino, Peeleete, e Maria Cristina deve venirselo a prendere e portarselo in California. Deve adottarlo, prendersene cura, e Maria Cristina non sa bene come reagire, prima sceglie
la facile risposta dell'alcol, poi l'ex-amante Claramunt, poi il
consiglio dell'amica Jeanne. Torna indietro a cercare le risposte,
inizia il viaggio e ci arriva la sua storia, il suo passato, l'arrivo
al presente, una storia raccontata per sommi capi molto importanti.
Come si legge La sorella cattiva, e come se ne
parla? È la storia strana di una ragazza strana che stringe legami
strani. Ma è anche una storia in mezzo a tante storie, una vita in
mezzo a tante vite; credo valga un po' per tutti.