Il gabbiano di Sàndor Màrai

Il gabbiano di Sàndor Màrai, nella bella edizione Adelphi tradotta da Laura Sgarioto. Sarà la traduttrice ufficiale? Non ho voglia di controllare, ma l'assegnazione di un traduttore ufficiale a un unico autore onde salvaguardane la coesione vocale da libro a libro è una di quelle finezze che da Adelphi un po' mi aspetto.
Sàndor Màrai, di cui già ho adorato Le braci e L'eredità di Eszter. Nato in Slovacchia nel 1900, morto suicida a San Diego nel 1989; nel mezzo una vita da esule, da un punto dell'Europa all'altro prima di approdare in America, e decine tra romanzi e raccolte di poesie. Dalle nostre parti è stato riscoperto soltanto negli anni '90, grazie soprattutto ai due titoli già citati, curiosamente proprio i due che avevo già letto.



E Il gabbiano? Il gabbiano è una lettura violenta, intensa, non per temi né accadimenti, ma per la forza espressiva dei personaggi. All'alba del secondo conflitto mondiale, un uomo e una donna si incontrano in circostanze a dir poco fortuite, la cui orchestrazione si fa vividamente meta-letteraria. E nello spazio di una notte si alternano due monologhi, la voce di uno e quella dell'altra, e chi siano l'uno per l'altra a tratti non ha senso, sono quello che dicono più di quanto non siano quello che sono.

Sàndor Màrai prende i suoi dubbi ancestrali su vita, morte, individuo e amore, e li incide sulla pagina in un ordine perfetto e meraviglioso, che non potrebbe essere altrimenti; e i suoi dubbi sono universali, e senti il tuo “io” che ci si rispecchia, e il confine tra scrittore e lettore si fa labile. È strano che io abbia amato così tanto questo libro, visto che vivo di personaggi, finezze psicologiche e puntigliose caratterizzazione; la trama e l'anima sono il fulcro di quanto cerco nei libri. Ma in questo romanzo i personaggi non hanno poi tanta importanza, e lo stesso curiosamente si può dire per la trama. L'artificio letterario è all'aperto e manifesto, ma è anche per questo che risulta splendido.

 Di questo romanzo vorrei portarmi addosso interi paragrafi, incisi non sulla pelle, ma nel risvolto dei vestiti, per potermi togliere dal mondo un attimo solo e rileggerli.


 
"Nelle ultime ore ho capito che gli uomini temono un unico momento: quello in cui la vita toglie loro la maschera, e sono costretti ad ammettere che quello che custodivano così spasmodicamente e gelosamente sotto la maschera, l'io, non è così assolutamente individuale come essi, nella loro supponenza, avevano creduto. L'io è qualcosa di comune, qualcosa che si ripete, si duplica, si mescola e si rinnova in eterno, e non è assolutamente personale."