C'è una parte di me secondo cui parlare di questo
romanzo dovrebbe essere una cosa facile, svelta, semplicissima.
Basterebbe lasciare correre le dita, ricontrollare ogni tanto i nomi
dei personaggi che sono tanti e tedeschi, guizzi di emozione e così
via. È in un certo senso un romanzo semplice, seppure intricato di
relazioni. È semplice perché i personaggi sono raccontati senza
troppi fronzoli o misteri, senza andare a scavare troppo a fondo. In
questo si differenzia moltissimo dalla saga dei Cazalet di Elizabeth
Jane Howard a cui viene accostato, che ti infila nell'anima dei
personaggi in laparoscopia e ti riporta indietro contuso.
In Figlie di una nuova era di Carmen Korn, primo
volume di una trilogia appena uscito per Fazi nella traduzione di
Manuela Francescon e Stefano Jorio, i personaggi sono tanti, ognuno
attentamente delimitato nella propria caratterizzazione. Non sono
particolarmente profondi né complessi, le loro storie si incrociano
e si intrecciano con una naturalezza che ha poco del vivere umano,
vittima di incertezze e intoppi. Capisco la scelta dell'autrice; il
punto del romanzo, credo, è la semplicità delle vite che racconta.
Vite spicciole, da gente normale, con problemi quotidiani. Ci sono
Henny e Kathe, la prima di buona famiglia, una cosiddetta “brava
ragazza” e Kathe, la sua migliore amica, una fervente femminista di
famiglia povera; il romanzo inizia col loro primo giorno al corso da
ostetriche, la grande svolta della loro vita. È il marzo 1919, e
sono ancora delle ragazze. Poi ci sono Ada, la bellissima e ricca Ada
col fidanzato che non ama, un banchiere verso cui la sta spingendo il
padre oberato dai debiti; ci sono i loro genitori, i dottori che
lavorano nella clinica di Henny e Kathe. E poi i loro fidanzati, e la
sorella di uno di loro, e poi l'amica di uno e... e così via. Figlie
di una nuova era è sicuramente un romanzo corale. A orchestra,
perfino.
Dicevo che dovrebbe essere facile parlarne, perché
racconta delle vite di persone comuni; ma ha inizio nel 1919, e la
fine raggiunge il 1948; essendo ambientato ad Amburgo, possiamo
immaginarci l'allegro contesto che ci si presenta, il genocidio che
si compie fuori dalle case dei personaggi, nelle loro strade, sotto
le loro finestre. Henny e Kathe fanno le ostetriche, la madre di
Kathe per un certo periodo fa la cuoca nella cucina di Ada, c'è chi
continua a frequentare la sala operatoria e chi dà lezioni ai
bambini o pensa al teatro. E poi c'è tutto il resto, un resto che
viene in parte dato per scontato e in parte raccontato attraverso un
punto di vista che, ammettiamolo, non è poi così scontato. Siamo in
Germania, e sappiamo bene cosa sia diventata la Germania negli anni
del nazismo.
Ed è per questo che chiacchierare di questo romanzo è
difficile; diamine, il termine stesso “chiacchierare” mi pare
improprio, troppo leggero, tenue, inoffensivo. Come si fa a
“chiacchierare” di un libro dietro la cui trama si cela
l'Olocausto?
Ma il punto è proprio questo: dare una
contestualizzazione a un crimine che facciamo ancora fatica a
comprendere. A riempire i treni di persone da ammazzare non sono
stati mostri, demoni, gente incapace di cogliere ciò che stava
accadendo. C'era anche gente normale, lì in mezzo. Gente che a un
certo punto ha deciso che di altra gente si poteva anche fare a meno,
e gente che non ha saputo reagire a quello che stava accadendo, e ha
lasciato inerme e spaventata che la storia scorresse.
Credo che sia questo a rendermi complicato parlare di
questo libro, che pure evidentemente ho gradito, trovandolo pure
importante per quello che fa e come lo fa, specie in questo periodo
che mi subodora neanche troppo vagamente di cannibalismo sociale: i
personaggi sono persone normali e vogliono cose normale, i loro
conflitti sono semplici, spiccioli. Eppure si trovano invischiati in
una delle faccende più tremende che l'umanità abbia mai
fronteggiato, e non sanno che fare. E allora vanno avanti, un po' lasciandosi trasportare, e un po' andando a tentoni, magari inciampando.
Come me con questa recensione, per dire.