Elmet di Fiona Mozley


Sto rimanendo orrendamente indietro con le recensioni. Un po' perché nelle ultime settimane ho letto a ritmo sostenuto, un po' perché ho ricominciato a seguire le lezioni regolarmente in università, un po' perché in un modo o nell'altro c'è sempre quell'imprevisto che ti strappa via quella mezza giornata che volevi dedicare al blog o alla scrittura di articoli. Un po', sicuramente, è perché ultimamente ho accettato un sacco di libri in lettura, e smaltirli non è facile, soprattutto se ci si è dati la regola di non pubblicare mai di seguito le recensioni di due romanzi mandati da autori o editori. Voglio dire, che senso ha tenere un lit-blog, se poi si pubblicano più libri mandati che autonomamente scelti? Si rischia di diventare vetrine, e diamine se non voglio che questo blog diventi una vetrina.
C'è anche da dire che quello che mi arriva, di solito, è bello forte. E che tra i romanzi che ho accettato in lettura ce ne sono alcuni che probabilmente non avrei letto in altro modo, e un paio non esiterei a definirli tra le migliori letture dell'anno. Nello specifico Lune di miele di Chuck Kinder e Elmet di Fiona Mozley, entrambi editi da Fazi editore, cui al momento devo almeno due scaffali di libri. Mi sovviene il fatto che abbiano entrambi al centro famiglie che sarebbe facile definire disfunzionali, e il pensiero si allarga ad abbracciare altri romanzi, altre letterature. Forse la narrativa è composta prevalentemente di famiglie disfunzionali, che come dice l'allegro Toltstoj all'inizio di Anna Karenina “tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, e chi ha voglia di leggere e scrivere di qualcosa che è sempre uguale?
Ma bando alle ciance; Elmet, dicevo, di Fiona Mozley, finalista al Man Booker Prize, al Women's Prize for Fiction e libro dell'anno per un sacco di giornali. Per quanto mi riguarda, più che meritatamente.
Elmet è un paesino sperduto nello Yorkshire, l'ultimo regno celtico indipendente, abituato ai suoi ritmi e alla sua concezione della società; al giorno d'oggi si respira ancora una forte avversione per l'autorità, al potere espresso dallo Stato nelle forme di polizia e burocrazia. Elmet è una terra di nessuno, in cui la forza è ancora quella bruta e i pugni sono gli argomenti più convincenti che si possano sfoggiare.
A Elmet vivono il protagonista e narratore Daniel, la sorella Cathy e il padre di entrambi, John, che però Daniel chiama sempre Papà. Daniel è un quindicenne mingherlino, quieto e silenzioso, Cathy ha un anno più di lui ed è una ragazza alta e slanciata, selvatica e indomita. Papà è un omone gigantesco, un pugile imbattuto negli ambienti delle scommesse clandestine, che supera i due metri e farebbe di tutto per i suoi figli, compreso trascinarli a vivere in mezzo a un bosco, costruendo per loro una casetta per proteggerli da un mondo che di loro non sa che farsene, – sono poveri, lui è poco educato, la loro giustizia in un contesto civilizzato non vale niente. Papà ha creato per Daniel e Cathy un nido, un bozzolo, una casa magica in cui insegna loro quello che conosce meglio, i rudimenti della costruzione, della caccia, della sopravvivenza nella natura. Nei giorni feriali vanno a fare visita a una vicina amica del padre, una donna che è stata amica della loro madre prima che sparisse, e che fa loro lezione su argomenti disparati ma sicuramente più vicini a un'educazione tradizionale rispetto agli insegnamenti di Papà.
Sicuramente sto idealizzando la perfezione della vita nel bosco della famiglia di Daniel. Quando i miei hanno divorziato, mia madre si è messa a cercare una casa per noi tre – io, lei e mia sorella – ed è incappata in una casetta nel bosco, sperduta tra i monti, che ancora oggi rimpiango. Immagino il silenzio, la pace, i rami bianchi di ghiaccio d'inverno, l'ombra e le cicale d'estate. Invece niente, ha preferito – saggiamente – un paesino con una farmacia e un medico di base, un alimentari e una chiesa sul cui campanile potevamo affacciarci dalla finestra del bagno, e che ci svegliava tutte le domeniche alle 7.30 con cinque minuti buoni di stonature preregistrate.
Confesso in anticipo che prima o poi lo manometto, quel finto campanile.
Ad ogni modo, il concetto di una famiglia piccola e solitaria in mezzo al bosco mi ha sempre affascinato parecchio. Una famigliola che potrebbe anche sembrare spezzata, incompleta, in cui però l'amore che ognuno prova per gli altri compensa senza il minimo ammanco la linfa perduta nel ramo spezzato. Quelle famigliole lì, – ciao ma', ciao sorella, che fate?
Elmet è la storia di quest'omone che difende quell'idea di famiglia senza farsi troppe domande. Dalle insidie del proprietario del terreno su cui ha edificato la casa per sé e per i figli, da un sistema educativo che non è fatto per loro, dalla fame, dalla povertà, dal ricordo della madre. È una storia che si fa cruda e crudele, e il contrasto tra il racconto di una vigilia di Natale che sa di legna bruciata e cherosene, e un finale ferroso e sanguigno e fangoso mi ha fatto interrompere la lettura di forza, a un certo punto, costringendomi ad andare avanti poche pagine per volta.
È un romanzo pieno di violenza, di vendetta, sangue, in cui l'illegalità è quotidiana, il lavoro è sfruttamento, la minaccia è una certezza. Eppure in tutto questo mi è rimasta la dolcezza, il calore che intercorre fra tutti loro, la quieta sicurezza di un nucleo che si vuole bene.
Non ho ancora fatto cenno alla scrittura di Fiona Mozley – è il tuo primo romanzo, Fiona? Ma scherziamo? Raccontami la storia del mondo finché non mi addormento, grazie – e al suo uso poetico delle figure retoriche, ai sensi che si attivano e all'odore di foglie umide che rimane in sottofondo durante la lettura, al rumore del fuoco che scoppietta, delle fronde degli alberi che si scuotono. Daniel sente il freddo dell'inverno e tu ti chiudi meglio nella giacca. Quella scrittura lì, ecco.
Va da sé che questa lettura è stata intensa, balsamo e coltello insieme, e la consiglio senza remore né indugi.