Piccoli scorci di libri #63, Un romanzo inglese e Il nostro mondo morto

Un romanzo inglese di Stéphanie Hochet, traduzione di Roberto Lana
Voland, 2017

È un libro breve, corto, scorrevole. Non avevo ben chiaro cosa vi avrei trovato; l'ufficio stampa mi aveva accennato qualcosa, ma preferisco sempre non indagare. Di norma non leggo mai le schede dei libri, non voglio rischiare di rovinarmi la sorpresa. Se un libro mi ispira bene, altrimenti passo. In questo caso sono più che lieta di non aver passato.
Un romanzo inglese è scritto da una francese, e già questo mi aveva un poco incuriosita. Devo dire, a ripensarci, che la Hochet ha preso tutta l'Inghilterra che poteva e l'ha infilata nelle pagine, con un effetto di nebbia e flemma veramente british. Il che, per me, corrisponde a un pregio.
Vediamo, da dove posso iniziare a parlare di questo romanzo, intenso ma soltanto sotto una facciata di compostezza? Dal punto di vista, direi. Per buona parte del libro il punto di vista e la voce competono ad Anna, protagonista trentatreenne, sposata all'orologioaio Edward, con un bimbo di tre anni, Jack. È il 1917, la guerra sfoltisce gli affetti, Anna si interroga sulla sorte dell'adorato cugino, di cui non ha notizie da mesi. Per aiutarla col bambino arriva George, che inizialmente si era immaginata dovesse essere una donna, avendo il ragazzo risposto all'annuncio per una governante che l'aiutasse con Jack.
La storia è semplice, cristallina. Ci sono Anna e Edward, Edward e George; e poi Jack e George, e Anna e George, e ancora Edward e George, in un rapporto la cui ostilità sembra non scoppiare mai del tutto. Ma ci sono anche altri punti di vista, che ci vengono raccontati in poche pagine, quando la narrazione si separa da Anna e diventa in terza persona. Arriva anche a un futuro distante di decenni, si fa onnisciente.
E di più non oso dire, perché si tratta di un libro breve, e a dirne di più si rischia di rovinarlo. Mi ha tenuto compagnia a Natale, in tutte quelle pause dalla tavola e dai parenti che ogni festa richiede. E sono contenta di averlo portato con me.

Il nostro mondo morto di Liliana Colanzi, traduzione di Olga Alessandra Barbato
Gran via, 2017

Mi è sempre difficile iniziare a chiacchierare di una raccolta di racconti. In questo caso l'impresa si presenta ancora più ardua, perché l'autrice non si limita a un unico stile unitario, tutt'altro. Ci sono racconti con una struttura classica e lineare, in cui tutto avviene alla luce del sole, letture cristalline. E poi ci sono i racconti in cui il terreno ti scivola da sotto i piedi, perché così vuole la Colanzi. Di che parlo, allora? Degli uni o degli altri?
A smentire il titolo, mi viene da dire che la costante non è la morte, ma l'abisso. Un richiamo oscuro, un'ossessione interna che fa da voragine. Nel primo racconto la ragazza parla delle proprie pulsioni come del Nemico, accenna alla madre padrona, esce con un ragazzo di cui non sa molto, e avverte un cupo risveglio. Per la protagonista del terzo racconto è L'Onda, che la porta lontano. E più avanti c'è l'ombra del cannibalismo, ci sono meteoriti e strani spiriti che prendono il controllo dei corpi, e li aiutano a trovare la vendetta. C'è morte, certo, non ne nego la presenza. Ma più che di una morte clinica, si tratta di quella voglia di morte che ci portiamo dentro dalla nascita e che, perlopiù, riusciamo a tacitare, che sia istintivamente o con acuti strategemmi.

È stato uno strano incontro, quello coi racconti di Liliana Colanzi. Non sono certa di averla compresa del tutto, e al tempo stesso sento che mi risuonano dentro, come i rintocchi delle campane da morto.