Le ragazze, di Emma Cline

Non so calcolare esattamente quanto tempo sia passato dall'ultima volta che ho sentito un bisogno così ardente di scrivere una recensione; di fretta, prima che l'effetto delle parole scompaia dalle mie dita, lasciandomi con un resoconto sciapo e privo di anima. Forse l'ultima volta è stata con Umami di Laia Jufresa, non lo so.
Non lo so.
C'è il fatto che Le ragazze di Emma Cline ho finito di leggerlo poche ore fa, sul treno, mentre tornavo da Torino. L'ho infilato nello zaino a poche pagine dall'inizio, a mezzora dalla partenza per il Lucca Comics, e non è che ne capissi ancora molto. Non sapevo che aspettarmi, le mie aspettative stanno tutte in un “ehi, se ne è parlato bene.”
Eppure mi sono ritrovata a leggerlo rapita, circondata dagli amici con cui dividevo l'appartamento a Lucca; mi sono alzata e ho cambiato stanza, perché le voci – troppe e troppo alte – mi tiravano via da Evie, dal suo vagare disadattato. È una di quelle letture intense da cui fai fatica a staccarti, ti rimane incollata sulla pelle come un soffio freddo e umidiccio.
Ma come la spiego, poi, Evie?
Evie parla della sua esperienza nel ranch. Di quando aveva quattordici anni, una famiglia alto-borghese formata da una madre che non la conosceva e un padre cui tutto sommato non interessava granché conoscerla. C'era poi un'amica, Connie, una sfigatella per il cui fratello maggiore Evie aveva una cotta. C'erano già erba e birra nella quotidianità di Evie, e una sperimentazione con la sua sessualità da adolescente che mi lasciava sulle mani un senso generalizzato di mistero e squallore.
La vita di Evie, a quattordici anni, era un sistematico abbandono. Prima del ranch.
Il ranch consisteva in un grumo disorganizzato di persone più o meno folli, disperate, perdute. Una massa informe il cui collante era un misto di droghe e Russell. Una specie di guru megalomane, la cui figura è facile trovare patetica, se si va oltre l'intrinseca crudeltà. Ma Evie aveva quattordici anni, e voleva credere alla famiglia del ranch, e soprattutto a Suzanne. Suzanne così bella e selvaggia, così piena di fascino e promesse. Immagino fosse amore, mi chiedo se lo capisse la stessa Evie.
Se dovessi descrivere Le ragazze in poche parole – cosa che evidentemente non sono in grado di fare – direi che è un libro sulla banalità del male, sul serpente che si nasconde in tutti noi, su quel momento che capita nella vita di così tanti individui “normali” in cui ci troviamo orrendamente vicini all'atroce. Basta così poco per perdersi e dimenticarsi di essere umani. Qualunque cosa questo voglia dire.
Leggendo pensavo a Evie come a una ragazzina priva di ancore e certezze, al suo abbandono totale, alla sua patetica ricerca di una casa. All'idealizzazione sfrenata di un universo malato. E riuscivo a capirla, a vederla, a provare pena per lei. Ho un ricordo confuso dell'umano che ero a quattordici anni; eppure so che anche quando il mondo sembrava sbriciolarmisi attorno, l'amore di mia madre mi bruciava come una comoda certezza in mezzo al petto, mettendosi tra me e un bisogno ignoto.
Potrei parlare ancora di questo libro. Potrei citare la traduttrice – Martina Testa – e sottolineare come l'autrice parli senza freni né sciocchi pudori di esperienze comuni e comunemente taciute, del buco nero affamato che si portano dentro le ragazzine, del vivere patetico. Di come abbia essenzialmente messo a nudo un mondo intero. Dei personaggi vividi, dell'onesta di Evie, della “giustezza” della cornice narrativa di una Evie adulta.
Ma parlare di Le ragazze in termini formali sarebbe come snaturarlo, sminuirlo, succhiargli via l'anima.
E non è il caso.
(è da leggere. punto.)