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Primo,
leggere che si trattava di una storia dannata di droga e adolescenza
un po' me lo avrebbe fatto accantonare in libreria, che non si tratta
di elementi il cui connubio mi alletti particolarmente. Ma si tratta
della CasaSirio, di cui mi fido abbastanza ciecamente, e diamine se
faccio bene.
Secondo,
Aimasso mi ha trascinata a forza dentro le pagine, mi ha tirato per
le braccia nella vita del Moro, ad agitarmi con lui, a fumare con
lui, ad attendere un crollo e una rinascita passando le giornate in
una pozza tossica di sudore. Leggendo pensavo “ehi, libro giusto al
momento giusto”, ma a ripensarci credo che si sarebbe rivelato un
libro giusto a prescindere dal momento.
Il
protagonista nonché narratore è il Moro, ovvero Federico Morelli.
Ha sedici anni, frequenta con esiti disastrosi le superiori, ascolta
un sacco di techno, consuma ragguardevoli quantitativi di droghe,
principalmente erba e MD. Ha un fratello minore con cui ha un
rapporto decente, un padre violento e una madre bambolina di cui non
sa che farsi. L'unico punto fermo è il quartetto di cui fa parte da
sempre, i Soci, il gruppetto di amici. “La cumpa”, si sarebbe
detto un tempo. Federico ha sedici anni e pare già condannato, più
dalla sua rabbia che dal modo in cui la sfoga. Che se togli la
disillusione, la forsennata ricerca di una discesa verso il baratro,
magari resta un rischio che sa di ricreativo, resta una fossa che ti
scavi da solo ma è poco profonda e volendo ne salti fuori. Ma quello
che lo brucia è forte e lo consuma forte. Tutte quelle storie sul
fatto che i nostri travagli più grandi vengono dai genitori, e sono
infilzate così in profondità in tutti i processi di formazione
dell'individuo che disfarsene forse è pure peggio che
disintossicarsi dall'eroina.
Tralasciando,
per quanto possibile, il percorso del Moro, le sue sconfitte, i suoi
tentativi, i suoi continui passi falsi, c'è tutto un mondo. Quello
della techno, di Sven Vath, Ricky Le Roy, Franchino. Nomi di cui sono
venuta a conoscenza da poco, sarà un annetto, ed è stato strano
ritrovarli sulle pagine e poter dire “ehi, ma io so che esisti!”,
anche se è solo una conoscenza superficiale fatta di un paio di
video guardati distrattamente su youtube. Che io col mondo della
techno, ai tempi, avevo davvero poco a che fare. Ero un'alternativa
snob, tra il punk povero e il metallaro becero. Di quelle che “ma
senza strumenti che musica è?”, per intenderci. Poter tornare
indietro nel tempo e devastarmi il cranio di coppini.
Ma
tornando al libro.
La
notte in cui suonò Sven Vath è fatto delle giornate da adolescente
del Moro, vissute con una prospettiva marcia, distorta. Ci sono
momenti di purezza che si alternano a serate di sudore e sfacelo,
idee sbagliate e cuori candidi.
Scivola,
di una scorrevolezza che dipende probabilmente dalla sveltezza con
cui il Moro cerca di scrollarsi il mondo di dosso, correndo. C'è
molto più di quello che ho elencato, ma sento di non dover essere io
a parlarvene.
L'unico
appunto che mi verrebbe da fare è l'ingenuità di alcuni dialoghi;
ma c'è pure il fatto che il gruppetto del Moro è composto da
sedicenni, e a quell'età capita di rigirarsi negli stessi
stereotipi, negli stessi atteggiamenti rassicuranti, cercando di
darsi forma nelle parole.
Io
fossi in voi lo leggerei. Mi è pure venuta voglia di andare a
visitare quel buco infetto di mondo in cui è ambientato, dovrebbe
trovarsi intorno a Susa.
Una
gita fuori porta. Che sarà mai.
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