La notte in cui suonò Sven Vath, di Lucio Aimasso

Dunque, vediamo, La notte in cui suonò Sven Vath di Lucio Aimasso, edito da CasaSirio e speditomi con mio sommo gradimento settimane fa. Ci sono un paio di cose da dire su questo punto, oltre una valanga di grazie.
Primo, leggere che si trattava di una storia dannata di droga e adolescenza un po' me lo avrebbe fatto accantonare in libreria, che non si tratta di elementi il cui connubio mi alletti particolarmente. Ma si tratta della CasaSirio, di cui mi fido abbastanza ciecamente, e diamine se faccio bene.
Secondo, Aimasso mi ha trascinata a forza dentro le pagine, mi ha tirato per le braccia nella vita del Moro, ad agitarmi con lui, a fumare con lui, ad attendere un crollo e una rinascita passando le giornate in una pozza tossica di sudore. Leggendo pensavo “ehi, libro giusto al momento giusto”, ma a ripensarci credo che si sarebbe rivelato un libro giusto a prescindere dal momento.
Il protagonista nonché narratore è il Moro, ovvero Federico Morelli. Ha sedici anni, frequenta con esiti disastrosi le superiori, ascolta un sacco di techno, consuma ragguardevoli quantitativi di droghe, principalmente erba e MD. Ha un fratello minore con cui ha un rapporto decente, un padre violento e una madre bambolina di cui non sa che farsi. L'unico punto fermo è il quartetto di cui fa parte da sempre, i Soci, il gruppetto di amici. “La cumpa”, si sarebbe detto un tempo. Federico ha sedici anni e pare già condannato, più dalla sua rabbia che dal modo in cui la sfoga. Che se togli la disillusione, la forsennata ricerca di una discesa verso il baratro, magari resta un rischio che sa di ricreativo, resta una fossa che ti scavi da solo ma è poco profonda e volendo ne salti fuori. Ma quello che lo brucia è forte e lo consuma forte. Tutte quelle storie sul fatto che i nostri travagli più grandi vengono dai genitori, e sono infilzate così in profondità in tutti i processi di formazione dell'individuo che disfarsene forse è pure peggio che disintossicarsi dall'eroina.
Tralasciando, per quanto possibile, il percorso del Moro, le sue sconfitte, i suoi tentativi, i suoi continui passi falsi, c'è tutto un mondo. Quello della techno, di Sven Vath, Ricky Le Roy, Franchino. Nomi di cui sono venuta a conoscenza da poco, sarà un annetto, ed è stato strano ritrovarli sulle pagine e poter dire “ehi, ma io so che esisti!”, anche se è solo una conoscenza superficiale fatta di un paio di video guardati distrattamente su youtube. Che io col mondo della techno, ai tempi, avevo davvero poco a che fare. Ero un'alternativa snob, tra il punk povero e il metallaro becero. Di quelle che “ma senza strumenti che musica è?”, per intenderci. Poter tornare indietro nel tempo e devastarmi il cranio di coppini.
Ma tornando al libro.
La notte in cui suonò Sven Vath è fatto delle giornate da adolescente del Moro, vissute con una prospettiva marcia, distorta. Ci sono momenti di purezza che si alternano a serate di sudore e sfacelo, idee sbagliate e cuori candidi.
Scivola, di una scorrevolezza che dipende probabilmente dalla sveltezza con cui il Moro cerca di scrollarsi il mondo di dosso, correndo. C'è molto più di quello che ho elencato, ma sento di non dover essere io a parlarvene.
L'unico appunto che mi verrebbe da fare è l'ingenuità di alcuni dialoghi; ma c'è pure il fatto che il gruppetto del Moro è composto da sedicenni, e a quell'età capita di rigirarsi negli stessi stereotipi, negli stessi atteggiamenti rassicuranti, cercando di darsi forma nelle parole.
Io fossi in voi lo leggerei. Mi è pure venuta voglia di andare a visitare quel buco infetto di mondo in cui è ambientato, dovrebbe trovarsi intorno a Susa.

Una gita fuori porta. Che sarà mai.