L'università non è questa gran cosa, ma.



È passato un bel po’ di tempo dall’ultimo aggiornamento del blog; non è mai stata mia intenzione avvalermi di pause estive per riposarmi, e ultimamente posso dire di aver letto un sacco di libri più che meritevoli di una recensione – prevedo infatti che il mio prossimo post riguarderà tutte quelle letture di cui non ho ancora parlato, ma di cui vorrei prima o poi chiacchierare. Tipo Zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa, Le cose che restano di Jenny Offill, I sette pazzi di Roberto Arlt… e tanti altri. Troppi altri perché io me ne ricordi e riesca a fare onore a tutti, accidenti.
Dicevo, è da un sacco che non aggiorno il blog, e la ragione sta tutta in un’endemica mancanza di tempo. Tutto lì. Un po’ dipende dagli impegni di Servizio Civile, – in biblioteca finisco a novembre, e non credo di essere in grado di spiegare quanto mi mancheranno l’ambiente e i colleghi – un po’ da quegli impegni simil-lavorativi che hanno a che fare con l’editing e la scrittura (e presto vedrò bene di implementare il tutto, diamine), un po’ dal tempo con gli amici cui non riesco a rinunciare. Presto aggiungerò una nuova voce alla lista delle Cose Che Mi Tengono Lontana dal Blog, ed è questo il tema centrale del suddetto post.
Non è che io abbia un motivo particolare per scriverne qui; non ho bisogno di confidarmi né di far convalidare le mie scelte da chicchessia. È tutto più o meno pronto, o quantomeno deciso. Diciamo che, non nutrendo una grandissima fiducia nella burocrazia, continuo a temere che i miei progetti si dissolvano in castello di sabbia, ma per il resto so già che lunedì tornerò a studiare. In teoria. Se non crolla l’Ateneo.
Un paio di anni fa mi sono laureata, e ho rotto mai tanto le scatole sia qui sul blog che sulla pagina facebook collegata. Mi sono lamentata di studio, esami, professori scomparsi e/o reticenti; mi sono vantata della mia tesi, ho gioito del voto ottenuto e ho sparso immani quantità di sollievo per essermi finalmente tolta dalle scatole la questione laurea.



Sì, quella è una foto della mia laurea. Sì, una delle mie migliori amiche si è vestita da super-eroina. Beverly Debby, ora non vi sto a spiegare. Oh, e se ben notate sono vestita coi colori di Grifondoro, rosso e giallo. Ne vado ancora fiera.
Dunque, tornando a noi e ai miei sproloqui.
Poco dopo la laurea aveva iniziato a formarmisi in testa un post dedicato alla mia esperienza, un post che ho rimandato finora, e che mi va di scrivere ora che sto tornando sui miei passi, con una visione ben diversa dell’università e del mondo accademico in generale.
Più o meno.
Il mio percorso triennale è stato una lunga agonia. Non tanto lo studio, sotto sotto rimango un’inguaribile secchiona. Erano gli esami a devastarmi emotivamente – e no, il termine “emotivamente” non è usato con accezione ironica. Lo stress, l’ansia, la perdita di capelli, l’insonnia, le innumerevoli crisi di panico. Mi presentavo agli esami manco dovessi salire sul patibolo, attendevo l’arrivo dei professori cercando di gestire la tachicardia. Un paio di volte mi sono dovuta prendere a schiaffi per non svenire.
La farò breve, non ha senso tergiversare né ammorbarvi con problemi da cui non sono più afflitta. L’università è stata un’esperienza devastante, mi ha divelto le energie e mi ha resa una larva.  Mi ha resa così insicura e instabile che per anni non sono riuscita a essere me stessa. Pensavo di essere cambiata, di essere diventata una persona seria, un’introversa incapace di avere a che fare con le persone. Ero solo triste, e arresa. Avevo i libri, avevo il blog. E per quanto fossi circondata da amici meravigliosi, sentivo di non avere nient’altro.
Sono anni che ho perso, ma che sarebbe sciocco pretendere indietro. Quel che è stato è stato, e tutto sommato mi va già bene essere riuscita a uscirne.
Dunque, il post che volevo scrivere sulla mia esperienza universitaria quando l’avevo appena conclusa. Mi dicevo, e con una certa convinzione, che potendo tornare indietro avrei bellamente evitato. Finite le superiori pensavo che avrei dovuto avvalermi di un titolo di studio per poter entrare nel magico mondo dell’editoria, e con quell’unica idea in mente mi sono imbarcata in una triennale durata sette anni di fatiche. Ho scoperto col tempo e col blog che l’editoria è un mondo variegato, fatto più di talenti e competenze ottenute più con l’esperienza che con lo studio, che valgono più un paio d’anni spesi dietro un progetto interessante che una magistrale con master. A saperlo, mi dicevo, avrei dedicato quei sette anni a fare ben altro. Una delle cose che ripetevo sempre parlando di università era che “Quando vedo un’università attraverso la strada, non voglio manco passarci davanti.”
Poi a fine luglio mi sono messa a chiacchierare con una collega in biblioteca. Mi parlava di una sua amica e di come soffra gli esami, lo stato di fuoricorso che col tempo si trasforma in una prigione fangosa dalla quale non si riesce a uscire. Un problema che peggiora ad ogni appello non superato.
Ed ero lì che mi spiacevo per la donzella sconosciuta, con la mia sana prospettiva post-laurea - che ti rendi conto solo dopo di come non valga la pena di farsi tutto quel sangue marcio, che un esame non passato non è niente di che, andrà meglio la prossima volta - e puff, dal niente mi è tornata una violentissima voglia di tornare a studiare. Dal niente.
L’università non dice niente di te come persona. Non c’è esame che possa ampliare le tue vedute più di una discussione accesa con altre persone. Non è che un ente in cui l’insegnamento viene organizzato per il meglio, un luogo in cui si va per imparare nel modo più funzionale possibile.
Il che non è poco, certo. Riuscissi a organizzarmi da sola per immagazzinare quelle conoscenze che voglio ottenere, non credo che tornerei a studiare.
Ma non è questa gran cosa. Non ti migliora, non ti definisce. È un posto dove vai a imparare le cose, niente di più e niente di meno.
È molto probabile che nel post che volevo scrivere anni fa avrei aggiunto una postilla volta ad allontanare i lettori dall’ambiente accademico. Non ce n’è bisogno, avrei detto. Ed è vero, sono ancora d’accordo con Erica-2015, l’università non è poi ‘sta gran cosa, non è così importante. Ma non è neanche l’inferno.
Tutto sta nel rapporto che stabiliamo con l’idea che ci facciamo di università, e con quei fallimenti in cui incorreremo per forza di cose. Sono rapporti che voglio recuperare, e questa è una delle ragioni principali per cui ho deciso di tornare a studiare. Non per riscrivere sette anni di orrore, ma per rifarmi di un’esperienza di cui sento di non aver goduto appieno. Come fossi andata al concerto del mio gruppo preferito col mal di testa; ora sono sana come un pesce e il gruppo è tornato in città, sarebbe imperdonabile da parte mia lasciarmi sfuggire l’occasione di dimenarmi come un’idiota sotto il palco, no?
Quindi, vediamo, per chiudere questa sfilza di personalissime e non richieste banalità.
L’università non è né bella né brutta, non è bene e non è male. È un posto in cui si stabilisce un passaggio di informazioni tra persone che sanno e persone che non sanno.
E stavolta ho intenzione di trarne tutto quello che posso.