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Intanto
segnalo le chiacchierate fatte sui volumi precedenti di cotanta
meraviglia. Qui, qui e qui. E mi rendo conto di quanto appaia poco
professionale e per nulla oggettivo riferirmi a quest'opera come a
“una meraviglia”. D'altronde non ho creato il blog per essere
oggettiva, e poi oh, io i Cazalet li adoro. Apprezzo come personaggi
pure quelli che vorrei vedere esplodere sotto una pressa – giusto
un paio, in realtà.
Dunque,
vediamo. Che posso dire ancora dei Cazalet, che io non abbia detto
nei tre post precedenti?
Intanto
il focus è sempre di più sulle tre ragazze; Polly, Louise, Clary.
Certo, ci sono anche tutti gli altri membri della famiglia, da Rachel
a Hugh, da Edward a Zoe. C'è Rupert, con tutto ciò che ne consegue,
e c'è pure Archie, che non farà proprio parte della famiglia in
senso stretto, eppure riesce a fungere da sostegno e collante
insieme.
Non
ho voglia di parlare di lui, però. Né di Zoe, nonostante io la
adori, né del Generale o di Miss Milliment. Ho voglia di parlare
delle tre ragazze che fanno da fulcro alla serie, che vivono i
mutamenti del mondo di cui fanno parte, che hanno superato i
vent'anni e vivono delle vite da adulte che, lo ammetto, mi hanno
quasi reso difficile riconoscerle.
Il
fatto è che io quelle tre le ho viste crescere. Mi ricordo Louise la
drammatica, che viveva per la recitazione; e Polly che piangeva così
facilmente per gli altri e si faceva forza per se stessa; e Clary
che… beh, era Clary. Era selvatica. Era Jo March, la mia diletta.
Me
le ricordo piene di dubbi e poi piene di sogni, che si trovavano a
tremare per la guerra e poi a mostrarsene coraggiosamente infastidite
– non Polly, certo.
E
ora sono cresciute. La guerra è finita, c'è chi ha fatto ritorno e
chi se ne va. Con tutto ciò che ne consegue. Sono adulte, che ci
posso fare, mi viene da ripeterlo. Stanno ancora crescendo, che
quello è un processo che credi finito solo quando non hai ancora
vent'anni e pensi che a un certo punto si diventi esseri completi, ma
sono adulte.
E
io faccio fatica a riconoscerle, a riconoscermici, a identificarmici.
Sono persone nuove, hanno cancellato parti di sé, e se ne sono
raccontate altre sulla loro infanzia. Ed è un processo riportato con
immensa grazia, senza sottolineature. Ma comunque spiazzante –
almeno per me.
Una
cosa che adoro nella scrittura di Elizabeth Jane Howard – e in
questo libro in particolare – è come elementi di crisi che
potrebbero fare da fulcro e motore a un romanzo intero, qui vengono
vissuti e raccontati come verrebbero vissuti nella “vita vera”.
Non c'è quel pathos estremo, quella tragedia consumata che si chiude
con un lieto fine, a sancire la fine di una vicenda che pare
coincidere con la fine della vita dei personaggi. No, accadono cose
segnanti e terribili, si annega nel dolore, si cade innamorati o si
subisce un lutto.
E
poi ci si rialza, il dolore si attenua, si continua a vivere.
Di
rado ho letto opere così delicate e piacevoli, eppure
straordinariamente oneste e umane. È così che va. Cadi e ti rialzi,
magari più sanguinante. Oppure più forte. E il dolore non è detto
poi che te lo ricordi. O che te lo ricordi così intenso e terribile.
Ecco,
il punto quando mi trovo a chiacchierare dei Cazalet è che non mi
viene da spiegare la trama e gli avvenimenti. Sì, ok, belli i
personaggi, più che convincente quello che succede loro. Bello
trovarsi nella Londra del dopoguerra, piacevolissimo lo stile, bello
lo spazio concesso anche ai personaggi secondari, e soprattutto ai
personaggi spiacevoli.
Però
non c'è solo quello. Non solo.
Ecco.
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