Perché Anita Blake

Sarà che sono particolarmente stressata causa studio e necessito di rifugiarmi in letture che sento note e affini, sarà che la tesi mi impedisce di uscire di casa per procacciarmi libri e devo fare con quello che ho a disposizione, sarà che era tanto che non rileggevo di vampiri e massacri. Però sono un paio di giorni che mi perdo dietro le avventure di Anita Blake, sterminatrice di vampiri, che per me è stata un po' come una seconda Harry Potter. La lettura perfetta per tutti i giorni, la giusta soluzione alla febbre o alla noia. Anita, piccola cacciatrice incazzosa. Mi rendo conto, rileggendola dopo tanti anni, di quanto abbia significato per me durante l'adolescenza. E soprattutto, mi rendo conto del perché.
Perché diciamocelo, non è che la letteratura abbondi di Anita. Va bene, c'è qualche eccezione, ma sono soprattutto eccezioni recenti, che all'epoca potevo solo sognarmi. Tra le medie e le superiori, se avessi voluto leggere di un'eroina femminile particolarmente forte e cazzuta, non avrei saputo da che parte girarmi. Avevo giusto Buffy, o le storie a fumetto che mia sorella iniziava senza mai finire, ma nei libri nisba. Voglio dire, avevo tanti esempi di eroine che mi piacevano, qualcuna per l'arguzia, altre per l'ostinazione o per l'inguaribile ottimismo. Però nessuna era semplicemente cazzuta. Nessuna, soprattutto, era una cacciatrice di vampiri alta poco più di me, con una – brutta – battuta sempre pronta e una schiera di pinguini di peluche sul letto, accanto a una fondina attaccata alla testiera. Ed era un po' quello di cui all'epoca avevo bisogno. Un personaggio che riflettesse un esempio di quello che avrei voluto e, in un universo alternativo, potuto essere.
Considerata la ragazzina che ero, Anita Blake mi dava esattamente l'esempio che volevo. Non rinunciava alla provocazione quando si trovava in pericolo, se era spaventata cercava di nasconderlo anche oltre l'ovvio. Anche quando aveva bisogno di aiuto, prima di tutto cercava di cavarsela da sola. Guardava le spalle a licantropi che pesavano il doppio di lei, praticava arti marziali, non mostrava più pietà dei suoi colleghi e si sforzava di essere riconosciuta come una dura, anche se ogni tanto doveva correre a vomitare dopo aver visto certe scene del crimine. Adoravo poi il fatto che si accettasse per quello che era, una risvegliante in grado di resuscitare i morti, una donna senza troppi scrupoli che mette la propria sopravvivenza al primo posto, e che tuttavia cerca sempre di fare la cosa giusta. Non perché le convenga, né perché voglia continuare a pensare a se stessa come a un'eroina senza macchia, tutt'altro. Anita non si faceva tante domande, non stava ad alambiccarsi su etica e morale, ed è anche questo che amavo in lei. Sapeva che uccidere era male e salvare era bene, quindi lo faceva e basta, senza stare tanto a filosofeggiare. A un “Ehi, ma...” rispondeva con un “Sì, vabbè”, un po' per non perdere tempo, più spesso perché le discussioni sarebbero state inutili. E anche se di norma sono sostenitrice della discussione intelligente, a volte mi capita di chiedermi che senso abbia sgretolarsi i neuroni sul perché qualcosa è quello che è. Cioè, c'è davvero bisogno di domandarci perché l'omicidio è male?
E onestamente non saprei dove andare a parare con questo post. Volevo chiacchierare di Anita, perché era tanto che non pensavo a lei, ma rileggere i primi due volumi della sua serie... non so, mi ha fatto bene. E soprattutto, mi ha permesso di capire perché da ragazzina l'adorassi tanto. Sto perfino riconsiderando di ricominciare la serie dove l'avevo interrotta, nonostante la delusione dell'epoca. E so che ne rimarrei comunque delusa, perché nei racconti di Anita le indagini rocambolesche e i combattimenti sanguinosi a un certo punto hanno lasciato spazio a copule immotivate con esseri soprannaturali a caso. Però comincio a chiedermi cosa sarà successo ad Anita durante la sua lunga assenza dal mio comodino.
(Tra l'altro la serie è cominciata nel 1993 ed è ancora in corso. Non è incredibile?)