L'armata dei sonnambuli dei Wu Ming

E dunque, L'armata dei sonnambuli dei Wu Ming, edito da Einaudi qualche mese fa. Se non avete idea di chi siano i Wu Ming, o magari pensate che si tratti di uno scrittore cinese, vi indirizzo al loro blog qui, che è interessante assai.
Ne chiacchieravo l'altro giorno con un amico in chat. Glielo stavo consigliando di cattiveria, che a lui piacerebbe un sacco. E lui mi dice che un suo amico già glielo ha raccomandato di cuore, definendolo frattanto 'un libro di sinistra'. E a ragione. Aggiungo, un libro di sinistra che non si vergogna di essere di sinistra. E non un libro che finge di essere di sinistra perché fa tanto intellettuale-chic mentre spruzza caviale e monocoli da tutti i pori, o che si sventola il naso di profumo innanzi alla prospettiva di soluzioni pratiche, che sono così volgaVi. Ma la chiudo qui, va', che sennò non riuscirò mai a parlare del libro.
Prima di tutto, devo fare cenno alla monumentale ricerca storica, e al modo meraviglioso in cui la storia è stata incastrata in una trama. Anzi, il modo in cui un'epoca è diventata un lungo racconto. Persone realmente vissute – personaggi minori della Rivoluzione che ora diventano personaggi principali di un libro – le cui vite vengono assaggiate e interpretate dagli autori.
Il giorno della decapitazione di Luigi XVI, piazza Rivoluzione è gonfia di gente. C'è Marie Nozière col figlioletto, ci sono loschi figuri incappucciati che vorrebbero salvare il Re – ma sono in cinque, e a due di loro non va troppo bene – e si canta la Marsigliese quando la testa cade. Non sono riusciti ad assistere Leo Modonnét, attore che si intrattiene con Colombina nell'androne di un palazzo, né il dottor Orphée d'Amblanc, mesmerizzatore che deve pure aiutare i suoi pazienti, anche in un giorno tanto importante per la Francia.
Il romanzo parte da qui, poi scivola verso il Terrore, che è un'epoca di cui non si sa poi molto, rispetto alla Rivoluzione, ma quella la conosciamo bene grazie a Lady Oscar, non per meriti di studio. E risponde, non coi giudizi ma coi fatti, alla domanda 'cos'è andato storto?'.
Le vite dei personaggi, per la breve durata del Terrore fino al risorgere della ricchezza – non è che vi sto fando spoiler, spero, no? - scorrono parallele, a volte si incrociano, mentre girano attorno a quel fulcro che è la Parigi che sobbolle. Marie Nozière è una sarta che abita a Sant'Antonio, il quartiere uber-proletario, che s'indigna all'idea di essere messa da parte, con le altre donne, a Rivoluzione finita, come se lei e le altre fossero rimaste a rammendare mentre gli uomini prendevano la Bastiglia. Leo Modonnét (Leonida Modenesi) è un attore con tanto talento, e una testa troppo dura, e le mani che hanno troppa fretta di incontrare altri volti. E osservando il grande teatro che è diventata Parigi, decide di diventarne un personaggio di spicco. E Orphée d'Amblanc, che studia la teoria del flusso magnetico di cui sono pieni i corpi, e dal quale dipende la loro salute. Un medico che non cura direttamente i pazienti, ma li interroga quando sono ipnotizzati, e al quale viene affidato il compito di studiare alcuni casi bizzarri avvenuti altrove.
E poi Laplace, che si è fatto internare spontaneamente nel manicomio di Bicetre, in quanto affetto da una grave forma di melancolia. E il poliziotto Treignac, che deve mantenere l'ordine pure a Sant'Antonio, dove gli ultimi della Francia ardono.
E gli errori che questi ultimi hanno compiuto, perché se dai una briciola di potere a un affamato, capace che quello ci si strozzi. E il momento in cui le bastonate non bastano più, e ci vuole Madama Ghigliottina, e quando l'inquietudine diventa davvero Terrore, e la Convenzione, e... e beh, tutto quello che è successo in quegli anni.
Che poi, possibile mai che Robespierre e Marat e D'Anton abbiano un ruolo così marginale in un romanzo che parla della Francia tra Rivoluzione e Terrore? Sì. Che questa è la Francia delle sarte, degli attori, che quello messo meglio è un medico mesmerizzatore. E suggerisce qualcosa, che abbiano fatto così tanto eppure valgano così poco.
Un'ultima cosa (bella). Le chiacchiere del tipo un po' in là con gli anni, col naso bitorzoluto, che ti sfiata di vinaccia e intanto ti racconta quello che è successo, con l'amico che rimpalla, seduto accanto a lui.
Ci sono questi brevi capitoli in cui è questa voce senza volto – un volto solo s'intuisce alla fine – a raccontare, con toni colloquiali da taverna annerita dal fumo, che 'Ti si conta noi, com'è che andò'.
E non so che altro dire, se non che sono contenta di aver conosciuto così i Wu Ming. Superfluo dire che lo consiglio, un 'lo consiglio' è poca cosa. C'è da brindarci, a 'sto libro.



(Tra l'altro ogni volta che compariva il nome Scaramouche, mi partiva 'SCARAMOUCHE, SCARAMOUCHE, WILL YOU DO THE FANDANGO? Thunderbolts and lightning...' e così via. Ogni volta.)