A
questo post tengo molto. È la seconda intervista di uno scrittore
che pubblico e sono contenta che sia di Tarenzi. Oddio, mi spiace
non essermi 'allenata' abbastanza con le domande, prima. A ben vedere
ne ho fatte poche di pregnanti, ma vabé.
Ho già
chiacchierato dei suoi libri qui, qui e qui e ho
fatto cenno alla sua estrema simpatia qui. Non so quanto sia
lecito sbrodolarsi in lunghe tirate gonfie di ammirazione, prima di
pubblicare un'intervista. Ovvio che se non adorassi i mondi che crea
e se non intendessi consigliarli con tutto il mio essere, neanche
l'avrei intervistato. Posso dire giusto che è uno dei pochi
scrittori, soprattutto di urban-fantasy, che sarei lieta e fiera
venissero esportati all'estero?
Cominciamo,
va'.
Una
piccola presentazione?
Cioè
devo presentare me stesso?...
Tappo.
Teinomane. Ciclotimico. Stonato. 38 anni all’anagrafe, la metà ai
test sull’età mentale. Ho il cellulare sempre in mano. Faccio
complimenti imbarazzanti. Rido a voce troppo alta. Guardo il sedere
alle ragazze. Mi rado una volta a settimana. E non mi pettino mai.
Proprio mai.
Quando
hai iniziato a leggere?
Da
bambino, principalmente per merito di mia madre. Ma a conti fatti non
poi così presto: credo di aver letto il mio primo libro intero verso
gli 11 anni.
Quando
hai scoperto il fantastico?
Nello
stesso momento: il libro di cui sopra era La storia infinita.
Subito dopo è venuto La spada di Shannara di Terry
Brooks. Tolkien ha dovuto aspettare la fine delle medie
:-P
Scrittori
di riferimento?
Quando
ero agli inizi Michael Moorcock, Stephen Donaldson,
Neil Gaiman (sempre
sia lodato! ND Leggy), Ursula LeGuin, Gene Wolfe e
William Gibson. Oggi anche Jim Butcher, Rick
Riordan, Jim C. Hines e quello straordinario genio
incompreso che è L. Jagi Lamplighter.
Come
tra le sbarre di una cella. Sbarre molto strette.
In
questo momento nel nostro paese la situazione è difficilissima per
l’editoria in generale e per il fantasy in particolare. Se mi
mettessi a dare i numeri delle vendite, dareste i numeri anche voi.
Oppure scuotereste la testa col sorrisetto cinico di
chi-lo-aveva-sempre-saputo.
Per
contro, nella mia esperienza consapevolezze di questo genere non
hanno mai scoraggiato nessuno dal continuare indefessamente a
scrivere, né gli autori pubblicati né gli aspiranti in cerca di
pubblicazione. C’è chi la chiama follia (o stupidità), e c’è
chi ricorda che quasi chiunque abbia avuto successo nella storia
umana era un povero pazzo prima di avere successo.
Quelli
che non lo hanno avuto sono rimasti poveri pazzi.
Quando
hai capito che volevi scrivere davvero?
Mai.
Se la
domanda fosse “Quando hai iniziato a scrivere?” la risposta
sarebbe “Tardi: a 27 anni suonati”. E nemmeno allora sapevo bene
se volevo farlo o no (e non lo dico tanto per dire, è così).
Oggi
per la verità ho smesso di farmi la domanda. Scrivo perché è una
(bella) parte del mio lavoro, e una delle poche cose che… ops stavo
per dire “che so fare”. Ma una cosa del genere non la posso e non
la devo giudicare io.
(Nono,
lo sai proprio fare. Vai tra'. NdLeggy)
Che
ruolo hanno avuto i tuoi studi universitari nella scrittura?
L’università
e la laurea in Storia delle Religioni, più che una causa, sono state
una specie di logica conseguenza di una fissa per gli dèi, gli
angeli, le magie, i mostri che mi porto dietro da... forse dal primo
libro di mitologia che mi hanno messo tra le mani da bambino. Quando
è stato di preciso non lo so, ma prima de La storia infinita
che citavo sopra.
Quindi
un sacco di tempo fa, ahimè... (si scrocchia un po’ le giunture
indurite dall’artrosi).
È
altrettanto vero, comunque, che l’università mi ha messo in
condizioni di avvicinare tutte queste materie con un occhio più
scientifico e più maturo... ovvero capire cosa è fico mettere nei
romanzi e cosa mandare a quel paese anche se è scientificamente
corretto!
È
cambiato il tuo rapporto coi libri degli altri, quando anche i tuoi
hanno cominciato ad apparire sugli scaffali delle librerie?
Sinceramente?
Ma
proprio proprio sinceramente?
“Evviva,
adesso ho più soldi da spendere per comprare libri!”
Scherzi
a parte no, non è cambiato granché. Continuo a pensare che gli
autori che amo siano mooolto più bravi di me, e a cercare le cose
che mi incuriosiscono di più. Pubblicare è un’innegabile
soddisfazione (più per l’ego che per il portafogli, se sei un
autore fantasy italiano), ma a quel punto i problemi della tua vita
di autore non sono risolti: cominciano.
Come
traduttore, come sono state le tue esperienze?
Dall’orrido
al sublime.
Nel
99% dei casi un traduttore non sceglie cosa tradurre: prende un
lavoro che gli viene proposto o assegnato, come qualunque
professionista. Dunque mi sono trovato tra le mani libri che avevo
già letto di mia iniziativa, libri che non conoscevo ma che sono
stato felice di scoprire e libri che non avrei mai avvicinato in vita
mia (immancabilmente a ragione).
Ho
tradotto cose molto divertenti come La valle degli eroi
di Jonathan Stroud (Salani) o realmente affascinanti come Più
nero della notte di Ian Tregillis (Asengard, in uscita
in questi giorni), e cose che non citerò perché non sono orgoglioso
che portino il mio nome nella prima pagina...
In
generale tradurre è un’ottima esperienza per chi vuole scrivere:
ti costringe a guardare la tua lingua attraverso le lenti di
un’altra, e a capire come far collimare – senza violarla –
l’espressività di un altro scrittore con la tua.
Domanda
difficile.
E non
perché la risposta sia nascosta nei meandri segreti della mia
psiche, ma molto semplicemente perché, come dicevo sopra, tendo a
non pormela da solo.
Scrivere
è un lavoro, ogni tanto una fissa, a volte un piacere, spesso uno
sfogo e nello stesso tempo una fonte di incazzatura, quasi sempre una
disciplina, quasi mai una soddisfazione.
Ma a
conti fatti non è una cosa che abbandonerei. Non in questo momento
della mia vita.
Che
cosa conta di più per te in un libro? Cos'è che giudichi più
importante?
Che ti
ipnotizzi. Il resto non conta.
O
meglio, il resto – lo stile, la forma, il linguaggio, le odiose
saccenti regolette e via dicendo, ovvero tutto quel che si può
riassumere in “scrivere bene” – è finalizzato a questo e a
questo soltanto: che una storia scritta riesca a ipnotizzare il
lettore. Nel caso qualcuno ci riesca anche senza l’apparato di cui
sopra, va benissimo lo stesso.
A meno
che non si vogliano scambiare i fini coi mezzi, nel qual caso si
parla di “feticismo scrittorio”, che tutta un’altra malattia.
Ci
sono le critiche costruttive e quelle campate in aria. Ti è mai
capitato di riceverne di assurde?
Hai
voglia!
Le
migliori sono sempre quelle di chi ti dà seriamente l’impressione
di aver letto un libro diverso da quello che hai scritto (e che
chiunque altro ha letto, beninteso). E non parlo tanto di quelli che
criticano episodi o dialoghi o scene che nel tuo libro NON CI SONO –
succede davvero, non scherzo – quanto piuttosto di quelli che
mentre leggono il tuo libro ti interpretano l’interno del cranio.
“È ovvio che con questa scena stavi cercando di aggiungere il tal
effetto, ma non ci sei riuscito per questo o quell’altro motivo”.
“È evidente che con questo personaggio volevi esprimere la tal
cosa ma, povero te, non ne hai la capacità”.
Se fai
notare che queste interpretazioni sono “ovvie” ed “evidenti”
solo al tuo interlocutore, visto che non solo a te non sono mai
passate per l’anticamera del cervello ma anche che nessun altro dei
tuoi lettori, che tu sappia, le ha mai pensate, ti senti rispondere
dal critico di turno che “lui sa veramente quel che tu pensi, gli
altri sono lettori comuni, non capiscono nulla”. Dico sul serio.
A
questo si può aggiungere che, nella mia esperienza personale, le
uniche critiche costruttive arrivano da persone di cui ti fidi e in
privato. Diffidare per principio di qualunque critica pubblica è
un’ottima regola generale.
Non
leggerle proprio è una regola ancora migliore.
In
'Quando il diavolo ti accarezza' compare un mercato che mi ha
ricordato molto quello in Nessun dove di Gaiman. È una citazione
voluta?
È una
mia interpretazione di tante scene simili che ho incontrato in libri,
film e fumetti. Sicuramente c’è dentro Gaiman, ma anche
Grant Morrison, Tim Powers, Ekaterina Sedia,
Hellboy e sequenze che mi vengono dai giochi di ruolo.
A dirla tutta, però, il principale riferimento consapevole era a
Something from the Nightside di Simon Green.
Si
possono avere anticipazioni sul prossimo libro?
Discariche.
Veleno.
Spade
di lamiera.
Pericolosissimi
gabbiani.
(Ah,
ecco perché a maggio passi da La Spezia, vieni a fare ricerche sul
campo. ND Leggy)
Un
casus belli che qualcuno ha buttato via.
E
alcuni personaggi metricamente svantaggiati.
Ci
sono dei piccoli rituali che segui, quando devi metterti a scrivere?
Non
quando inizio ma quando ho finito: un po’ di silenzio e un pensiero
al piccolo Spirito domestico che supporta il mio lavoro.
Come a
tanti.
Inizi
pubblicando con uno piccolo (al tempo in cui ho iniziato io era meno
arduo di adesso, non c’era una tale crisi), e se vai bene alle
vendite ti può notare uno più grande. E intanto entri nell’ambiente
e ti crei qualche contatto personale, che può sempre tornare utile
(e in genere lo fa).
Poi
arrivi alle pubblicazioni un po’ più grosse e scopri che i
problemi sono appena cominciati.
Come
stanno i tuoi animali?
Grassi,
felici e mai sazi nonostante la grassezza!
Che
stai leggendo adesso?
Blackbringer,
un romanzo di Laini Taylor inedito in Italia – ma se vi
capitano sotto mano i suoi libri tradotti in italiano leggeteli,
valgono la pena! – che parla di creature fatate.
Ma l’ho appena cominciato perciò non chiedetemi ancora com’è :-P
Ma l’ho appena cominciato perciò non chiedetemi ancora com’è :-P
Un
consiglio a chi vuole scrivere?
Crederci.
Più di quanto ci abbia mai creduto in tutta la sua vita. Crederci al
di là del razionale e del sensato, con la fede pura dei mistici.
Perché non esiste un momento peggiore di questo in Italia per chi
scrive professionalmente o chi vorrebbe farlo. Senza esagerazioni, è
tempo di eroi.
E ne
servono davvero.
Fine
intervista. Una lunghissima sequela di 'grazie' a Tarenzi che si è
prestato, e spero che voialtri abbiate gradito. Io sì. Di molto.