Col nostro sangue hanno dipinto il cielo di Eleonora C. Caruso

Forse non dovrei dedicare un intero post a un'unica lettura, considerando di quanti libri non ho ancora avuto tempo di chiacchierare, pur avendoli terminati da giorni o settimane. E ci sono anche tanti altri argomenti di cui avrei voglia di scribacchiolare e che attendono in coda da un bel po' di tempo.
Però... ecco, nell'ultimo post – mi è venuto istintivo identificarlo come 'quello polemico', poi mi sono accorta che la suddetta dicitura si adatta più o meno a un terzo dei miei post – ho parlato un pochetto di comunicazione, no? Di come sia inutile 'produrre' un libro per bene, con tutti i crismi, se poi il lettore non viene a saperne niente. Vorrei avere anche parlato di copertine, come sia raro di vederne tali da risaltare in mezzo all'ingombrante masnada di tizie sfocate fotografate di schiena o di primi piani di donzelle dallo sguardo penetrante. Parlavo di 'buona comunicazione' e di 'qualità', no?
Ora, ricollegandomi alle lamentele dello scorso post... dico Speechless Books. E dico 'Cristo, guardate questa copertina'. E poi, con signorile disinvoltura, passo a parlare effettivamente del racconto.
Col nostro sangue hanno dipinto il cielo di Eleonora C. Caruso. È uscito pochi giorni fa e lo potete leggere e scaricare gratuitamente qui.
È un racconto che dura più o meno una cinquantina di pagine, che parte dalla quasi-fine, e poi ci racconta come ci si è arrivati. Parla del Giappone, ma di un sotto-mondo che non conosco abbastanza bene per dire se la Caruso ha saputo rappresentarlo realisticamente. E onestamente a un certo punto, chissene. È un bel racconto. Un bellissimo racconto. Punto.
Parla di Shun, un host. Gli host sono gli intrattenitori dei night-club, quelli che devono sorbirsi gli attacchi e le paturnie dei clienti e spingerli a bere, consumare e spendere il più possibile. Sono belli, freddi, cinici. Shun inizia ad essere troppo vecchio per il suo lavoro, ha due ulcere, gli occhi chiari da occidentale – lascito della nonna francese – e una curiosa ossessione per la propria bellezza. È ermeticamente chiuso in se stesso, sessualmente quanto emotivamente. Sembra apprestarsi ad accogliere la futura decadenza, ma con placida grazia.
Poi incontra Toru, un ragazzo che gioca col Nintendo nella scatola-abitazione di un barbone. Un ragazzo confuso e simpatico, che fa un po' tenerezza. Chiacchierano, parlano e, per quanto i loro dialoghi svelino e si alzino, non sono mai qualcosa di poco credibile o eccessivo. Sono dei bei dialoghi. Ed è bello come, nel giro di cinquanta pagine, arriviamo a conoscere i personaggi, attraverso gli occhi gli uni degli altri.
La Caruso ama il Giappone senza illudersi su ciò che è realmente. Anch'io adoravo il Giappone – un po' lo adoro ancora, ma il ripetuto fallimento come studentessa di giapponese me l'ha reso a tratti indigesto – ma ho sempre voluto vederlo in un certo modo, risaltandone alcuni lati e mettendone in ombra altri.
E... non so bene cos'altro dire.
È un racconto stupendo che vi invito caldamente a leggere.
Ed è scritto bene, raccontato bene, e poi l'atmosfera e... beh.

Leggetelo.