Qualche giorno fa* scendevo da
una montagna insieme a due amiche – per la verità un’amica e una
sua amica – con cui nel corso della giornata avevo scambiato –
ricambiata – un buon tot di informazioni personali, considerazioni
filosofiche e consigli di lettura. Ho pensato a Elizabeth Strout, e
mi è uscito con tristezza che: “Mi restano da leggere solo due dei
suoi libri, poi come farò senza?”
Non conoscevano Elizabeth
Strout, e ho cercato di spiegarla. Il fatto che i suoi romanzi si
incentrino su piccole tragedie umane, largamente personali, drammi
famigliari di personaggi imperfetti con cui è facile empatizzare. Il
mio preferito rimane I ragazzi Burgess, in cui
le vicende di tre fratelli si catalizzano attorno all’atto
sconsiderato di un ragazzo che getta una testa di maiale in una
moschea.
“Tutti i personaggi sono
disgraziati, sono tutti vittime di loro stessi, ripetono in circolo
gli stessi errori perché è quello che fanno le persone”, ho
spiegato. Ho aggiunto, credo, di trovare confortante trovare in un
romanzo la conferma delle mie miserie, la consapevolezza che siamo
tutti sulla stessa barca scalcagnata in una tempesta che non capiamo.
L’ultima parte l’ho aggiunta adesso, per spiegarmi meglio. In
mezzo a una chiacchierata scialla sarebbe bastata a farmi spingere
giù da una scarpata.
Elizabeth Strout mi conforta.
Mi conforta non illudendomi su un mondo migliore, più gentile e più
giusto, ma stringendomi la mano per farmi sentire che in questo
marasma c’è anche lei – o c’è stata. Non dice che andrà
tutto bene, ma che puoi farcela. Forse. Se ti impegni. E se le
circostanze non sono orrendamente sfavorevoli. Potrebbe piovere. Ma
ecco, se anche dovesse andare tutto nel peggiore dei modi – come è
probabile che succeda a tutti un imprecisato numero di volte – puoi
sopportarlo – oppure no – e poi rialzarti – con qualche pezzo
in meno. È come perdere una gamba e andare a visitare un reparto di
veterani per sentirci dire che Ci siamo passati tutti.
Elizabeth Strout è il primo
nome che mi viene in mente, ma non è l’unico. C’è un’altra
Elizabeth, Elizabeth Jane Howard, quella della saga dei Cazalet –
la saga famigliare che ha sbancato le saghe famigliari – e di cui
ho preferito sopra ogni cosa Il lungo sguardo e All’ombra di Julius. Anche qui ci troviamo di fronte a una scrittrice che
non ha nessuna intenzione di coccolare il lettore; i suoi romanzi
sono emotivamente crudi, scritti con un bisturi in uno stile
raffinatissimo. I suoi personaggi sentono profondamente e soffrono
profondamente. Più sono superficiali, più finiscono per provocare
sofferenze indicibili alle persone che hanno intorno. Sono romanzi in
cui accadono cose, si cambia, si evolve, si prendono strade
inaspettate; ma sono anche romanzi che accadono dentro i personaggi,
nei loro inganni privati, attraverso le lenti con cui subiscono il
mondo. L’amplificarsi delle miserie umane, una conferma della
condivisione di uno stesso assurdo destino.
Dopo Elizabeth Jane Howard,
Wendell Barry ha un po’ l’effetto di una pomata su un taglio
fresco; il che sembrerebbe implicare che la scrittura della Howard e
della Strout taglino, e che questo intero post manchi di senso già
dalle premesse: ma ci tengo a precisare che le due scrittrici già
citate non provocano un taglio, ma lo puliscono, lo disinfettano, lo
asciugano dal sangue perché possa essere medicato. Il dolore prima
che passi. Wendell Berry è il primo respiro di sollievo di quando ti
accorgi che il peggio è passato, che non fa più così male.
Il
che non significa che le vite raccontate da Berry non siano dure,
aspre, piene di dolore, tutt’altro. I suoi romanzi – ho letto
soltanto Hannah Coulter
e
Jayber Crow
–
sono ambientati nella cittadina immaginaria di
Port William, nel Kentucky
– difatti i personaggi talvolta si incrociano e si intrecciano,
abitanti di una stessa fantasia. Si tratta di un paese largamente
rurale, che cambia e insieme cerca di non cambiare man mano che “il
nuovo avanza” nel corso della rivoluzione industriale del
novecento.
Vivono profondamente il terreno che abitano e le relazioni con le
loro famiglie e la famiglia allargata che sembrano comporre tutti
insieme, in quella che a tratti mi sembra un’idealizzazione utopica
delle
comunità rurali.
A colpire forse è proprio il contrasto tra la vita dura dei
personaggi e la dolcezza della scrittura, delle loro stoiche
evoluzioni personali. Mi
piace, Wendell Berry. Ha l’aria del vicino di casa che ti porta a
cestate le verdure del suo orto.
Alan
Bennett
è un altro autore efficacissimo contro
il
mal di vivere. I suoi romanzi sono brevi, acuti, intelligenti e
dispettosi. Gioca coi suoi personaggi rendendoli tutti – o quasi,
visto che la regina di La
sovrana lettrice
fa una splendida figura – ridicoli. Disgraziati che a vederli da
vicino ti dispiaci immensamente, ma che a vederli sulla carta mentre
si barcamenano tra l’imbarazzo e le conseguenze delle proprie
azioni, fanno ridere. Sono spesso miseri, ma non così tanto da far
sì che il lettore possa prenderne del tutto le distanze. Sono
persone come tante – e come noi. E se riusciamo a ridere
dell’assurdo scherzo capitato ai coniugi Ransome
in Nudi e
crudi,
che si sono trovati di punto in bianco la casa completamente
svaligiata, perché non potremmo ridere delle nostre disgrazie?
Ci
sono altri autori che citerei se avessi letto qualcosa di più di
quello che hanno scritto – di Kent Haruf ho letto soltanto
Benedizione,
di William Trevor Morte
d’estate.
Ci sono anche autori che mi verrebbe da consigliare per l’effetto
che hanno su di me, che con la tragedia e col disturbante vado
proprio a braccetto – i romanzi di George Eliot aka Mary Ann Evans,
o di Sandor Màrai, o di Yiyun Li. Che Jane Austen sia un bagno caldo
per l’anima è sottinteso, ma non è sottinteso che tutti
i lettori vadano matti per le sue eroine e i loro tormenti.
I
libri salvano. Mi hanno salvata così tante volte che non riesco a
immaginarmi in una realtà parallela – o in una linea temporale
alternativa – in cui non siano stati la parte più importante di
certe giornate, quelle brutte che o ti uccidono qualcosa dentro o
fanno di te un filosofo o uno scrittore dolente – ciao amico Kafka,
è a te che penso.
Tutto
questo post è per dire che “Il mondo sa essere crudele, portati
dietro un libro, non sai mai quando ne avrai bisogno. Se ti senti
perso, la Strout ti scorta di nuovo dove ti eri lasciato cadere.”
Non
so se si capisca quello che ho scritto – soprattutto il finale –
ma se non si capisce niente, darò la colpa al caldo – che a ben
vedere si è parecchio attenuato.
*in
realtà ho iniziato a scrivere questo post settimane fa, la
cronologia è inesatta ma non avevo voglia né motivo di correggerla;
a ben vedere non avrei neanche ragione di aggiungere questa postilla,
ma sono pignola.