Il
discorso è lungo, ci arriverò girandoci attorno piano piano. Inizio
col dire che Arcadia è stato tra gli ultimi libri che ho preso in
biblioteca prima che chiudessero le sedi. Mi era capitato sotto gli
occhi diverse volte, e non l'avevo mai preso, vai a sapere perché.
L'avevo adocchiato anni fa, quando Codice lo presentava al Salone del
Libro come una novità – era il 2012, ero tornata diverse volte a
visitare lo stand, Arcadia mi chiamava perché parlava di una comune,
e a me le comuni hanno sempre affascinato parecchio, parti di
quell'immaginario hippie nostalgico e mitizzato, insieme ai
furgoncini Volkswagen, a Woodstock etc. L'ho iniziato che la
quarantena doveva ancora iniziare per rimanerne folgorata – il mio
primo Lauren Groff, ho adorato il suo stile. L'ho abbandonato per
qualche giorno, l'emergenza mi aveva come dissociata, non riuscivo a
leggere. Quando l'ho ripreso in mano ho divorato i capitoli, la vita
del protagonista si allontanava dalla sua infanzia col passare delle
pagine. L'adolescenza, la vita adulta, la città, il lavoro. E poi
l'ultimo capitolo, che è ambientato in un adesso che è davvero
adesso, è esattamente quello che stiamo vivendo, non fosse per un
paio di particolari – e mi verrebbe da scrivere a Lauren per
chiederle in caps-lock come facesse a saperlo, da dove avesse preso i
dati, le informazioni, le avevano sussurrato in sogno gli alieni?
Ma
parlare di Arcadia per non parlare d'altro che di noi sarebbe
riduttivo, insultante. Cercherò di chiacchierare di tutto, senza
fagocitare la storia, senza dimenticarmi di noi.
Arcadia
inizia che il protagonista – ha un nome normale, ma tutti lo
chiamano Briciola, ed è l'unico nome che ricordo – è un bambino.
Siamo nello stato di New York al tramonto degli anni '60, in una
comune immensa chiamata Arcadia. Briciola non parla con nessuno,
neanche coi genitori. Gioca più spesso da solo che con gli altri
bambini, adora la madre, Hannah ne ammira la splendida forza. Il
padre, Abe, è una solida roccia di praticità e ideali. Lavorano
sodo tutti insieme per mettere in sesto la magione che un membro
della comunità ha donato agli arcadiani; è una villa enorme senza
un tetto, e loro lo riparano. C'è chi tiene l'orto, chi fa il pane,
chi coltiva l'erba. Il loro leader – ufficioso ma neanche troppo –
suona in una band blues-folk. Si pratica l'amore libero, si fanno
bambini, si parla di filosofia politica. Per Briciola, Arcadia è un
sogno. Non è il narratore, e il mondo ci appare più simile a quello
che è davvero, anche se lo vediamo filtrato dai suoi occhi pieni di
meraviglia. Briciola cresce, le contraddizioni di Arcadia vengono a
galla. Da ragazzo parla, ha un gruppo di amici nativi di Arcadia e
tutti insieme guardano con scetticismo le centinaia di turisti
dell'ideologia hippie che si accalcano sulla loro proprietà.
Briciola ama, vive, Arcadia poco a poco perde pezzi e li lascia
andare fuori, nel mondo. La vita di Briciola va avanti, non si
sgonfia.
Non
è una brutta vita. L'approccio di Briciola al mondo mi ha fatto
pensare a Stoner, l'emblema della sconfitta per abbandono. Eppure è
molto più solido di quanto non sembri, calmo e deciso a non
rinunciare a quello in cui crede. I principi di Arcadia gli hanno
forgiato un cuore pieno di compassione, anche se vede bene le
contraddizioni della sua infanzia, il torbido nascosto dietro il
rifiuto delle norme sociali – è così facile che quel torbido
avveleni il rifiuto stesso, in modo acritico e automatico; ma gli
insegnamenti erano giusti, e Briciola li tiene con sé. Ho amato
Stoner – il libro – ma non ho mai perdonato al protagonista la sua
resa sulla figlia. Briciola non partecipa alla battaglia non per debolezza, ma perché
ripudia la guerra. La sua non è vigliaccheria, e nemmeno ingenuità.
È la calma accettazione di se stesso, dei propri limiti, di tutte le
magagne che comportano. Immerso nel mondo reale, sembra un alieno costretto ad abitare le nostre contraddizioni; non esiste certezza troppo radicata per non
essere messa in discussione. Sa di non sapere, e di poter sbagliare.
Ma sa anche che certe cose sono giuste, e altre sono sbagliate. La
sofferenza è sbagliata. Il dolore è male. L'avidità è crudele.
Tanto gli basta.
Ma
veniamo al presente, che nel romanzo è ancora futuro. Ora, della
vita di Briciola non ho detto abbastanza perché si possa dire in
atto uno spoiler. Mettiamola così: Briciola diventa adulto, cresce e
cresce e raggiunge la mezza età. Lo spoiler sta tutto nel fatto che non
muoia prima. Di solito evito di andare così in là
nel raccontare un libro. Preferisco partire dall'incipit, enumerare
le tematiche profonde, segnalare se i personaggi siano ben scritti –
sì, decisamente – o meno, come sia lo stile – splendido, pieno
di immagini. Quello che accade avanti nei romanzi, di norma preferisco tacerlo.
Ma in questo caso. In questo caso, in questo momento, coi social che
mi martellano notizie e fake-news, l'ansia pronta a spiccare un balzo
verso l'alto, la speranza che va dalla mera sopravvivenza a un
socialismo pacifista globalizzato – POSSO SOGNARE? POSSO? E DIAMINE. – sorvolare sull'ultimo capitolo sarebbe impensabile. Briciola e la
sua famiglia vivono dagli USA la crisi che stiamo vivendo adesso. Un
po' peggio. In un mondo che ci è lontano perché la sanità negli
USA è una cosa che lasciamo stare santoddio – quello che spero ci
resterà di quest'anno infernale è il tabù sui tagli alla sanità.
Ci spero davvero, di cuore.
Dall'Isola
di Giava è spuntato un virus che chiamano nuova aviaria, nuova Sars,
e ha infettato il mondo. Decine di migliaia di morti, i sistemi
sanitari al collasso, le quarantene. Lauren Groff si discosta da noi
di pochi aspetti: la mortalità è altissima rispetto a quella del
covid19, l'Europa non viene neanche citata, segno che l'autrice ha
sovrastimato la nostra capacità di fare fronte a una simile
emergenza.
Briciola
teme per sé e per chi gli sta accanto; si preoccupa per le persone
che ama, annichilisce alla conta dei morti lontani, si chiede come
faranno i rifugiati che dormono nel suo androne quando lui si
rintanerà nella vecchia Arcadia insieme alla madre un tempo così
forte, e non porterà più loro da mangiare.
Non
ne parlo soltanto perché sento il bisogno di parlarne – sono
affetta dalla logorrea della tragedia come tutti, ma non è solo
questo. Ne parlo anche perché il modo in cui Briciola affronta la
situazione terrificante è... beh, prima di tutto difficile da
descrivere. Mi vengono termini come “fulgido esempio”, “un
faro”, cose così, insiemi di parole che abbiamo già sentito mille
volte, che scivolano senza lasciarsi dietro un vero significato.
Briciola è spaventato e presente. Aspetta. E nel frattempo cerca di
non lasciarsi accecare dalla paura. Continua a sperare, e a
comportarsi come una brava persona – gli viene naturale, e questo
lo rende prezioso; non passa le giornate sui social network, non
scrive tweet inferociti pieni di capslock e cazzi e porca puttana per
poi cancellarli dopo mezz'ora, – urlare contro il vento fa bene, ma
non è una soluzione.
Vorrei
essere come Briciola. Vorrei sapere come prenderla, vorrei essere
indulgente con chi non ha strumenti per capire. Vorrei essere immune,
se non alla paura, alla rabbia che scatena. Vorrei sentire davvero,
come all'inizio, che ci siamo dentro tutti, anche le teste di cazzo
che si sporgono dai balconi per urlare a chi corre da solo,
anche quelli che mettono a palla Celentano, anche quelli che serrano
le finestre perché 'sta musica ha rotto il cazzo e non se ne può
più. Anche gli stronzi e gli ignoranti. Anche gli snob che sono così
certi di saper distinguere gli uni dagli altri. Vorrei avere gli
occhi di Briciola, la sua indulgenza.
Dunque,
ricapitolando. Dichiaro chiusa la sessione quotidiana di Piangiamoci
addosso, grazie e riassumo quello che ancora non ho detto.
Il punto focale di Arcadia è il rapporto tra l'individuo e
gli altri. Le proprie aspirazioni contro i bisogni del mondo.
Briciola non è perfetto; cresciuto in un ambiente che non sapeva
distinguere tra un'ambizione sana e un'ambizione meschina, per sé
non riesce a volere niente senza un imbarazzante senso di colpa.
Briciola e la sua famiglia, Briciola e Helle, Briciola e Grete. È un
romanzo politico, filosofico, quasi storico – gli anni '60 sembrano
oggi terribilmente lontani. È dolce, e rivoluzionario; nella sua
speranza, nella sua gentilezza.
(uno stupido appello)