Dal profondo dell'esperienza umana, Le risposte di Catherine Lacey


Inizio con un'affermazione netta e convinta: io a Catherine Lacey voglio bene. Mi ero già affezionata con Nessuno scompare davvero, che comunque mi è piaciuto pure più di Le risposte, ora la considero proprio una certezza. So che non lascerò passare che pochi mesi tra il momento in cui uscirà un suo nuovo romanzo e quello in cui deciderò di recuperarlo. So che sarà una delle mie autrici di rifermento nei periodi in cui avrò voglia di leggere ma non saprò cosa leggere, e soprattutto quando avrò voglia di un libro che mi costringa a riflettere e a fare i conti con tutte le mie falle umane con la confortante empatia di chi ci è passato e ci sta passando, senza pregiudizio né presunzione.
Dopo questa manfrina piena di cuoricini e lodi sperticate, aggiungo che Le risposte (edito da Sur nella traduzione di Teresa Ciuffoletti) ha il merito di dimostrare una cosa: che in un romanzo non conta tanto il cosa ma il come. Prendiamo l'argomento centrale: un attore/regista parecchio famoso dà inizio a un esperimento volto a spiegare lo stato di innamoramento. È un esperimento serio, studiato con tutti i crismi, con una squadra di quotati ricercatori che analizzano dati raccolti empiricamente. L'attore/regista dovrà passare il suo tempo con un buon tot di finte fidanzate che seguiranno un copione mentre le loro emozioni vengono registrate tramite sofisticati strumenti di misurazione.
A leggerlo così, senza conoscere l'autrice, si potrebbe perfino ipotizzare un chick-lit leggero, un What women want della letteratura, un “sembrano non avere nulla in comune, ma la scintilla dell'amore blabla”. E invece.
Protagonista del romanzo non è l'attore/regista, che comunque è molto presente. La protagonista è Mary, che ha trent'anni, lavora come contabile per un'azienda di cui non le frega molto, è sommersa dai debiti universitari e dalle parcelle mediche – siamo negli Stati Uniti, ricordiamocelo – dovute agli strazianti dolori di origine psicosomatica che l'hanno presa negli ultimi anni. Ha un'unica amica, Chandra, la sua compagna di stanza dai tempi dell'università, che le vuole bene e si prende pienamente cura di lei come nessun altro. Le consiglia di farsi visitare da una specie di... lo chiamerò “chiropratico dell'anima” perché non mi sovvengono terminologie migliori, Ed, che aiuterà Mary a liberarsi delle sue sofferenze in modi non meglio specificati che hanno a che fare con lo spirito e i blocchi e altre cose non troppo chiare, – c'è da dire che il metodo funziona, e bravo Ed.
Mary è una persona molto sola; sopra ogni cosa, è una persona che arranca avanti nella vita, costantemente incerta, indefinita, come se non riuscisse a decodificare pienamente l'esperienza umana. Ha avuto un'infanzia a metà, trascorsa fino ai nove anni in una casetta nel bosco lontana dal mondo insieme ai genitori ultra-cristiani – curiosamente in questo caso l'idea della famigliola nascosta nella foresta non mi intenerisce affatto – e poi con una zia che non ha il coraggio di chiamare. Ha solo Chandra e il suo lavoro, e il resto è silenzio. Non ha mai visto un film, non si interessa di attualità e cultura generale. Vive in una strana bolla emozionale che l'esperimento scalfisce e poi distrugge.
Ecco, l'esperimento. Mary risponde a un annuncio per un lavoro serale “ben retribuito”, e dopo qualche colloquio si trova immersa nel ruolo di fidanzata emotiva di Kurt, l'attore insostenibilmente bello e famoso. Eccetera.
Ora, i temi profondi del romanzo. Non si tratta di una storia d'amore, ma di un romanzo sulle emozioni umane, sull'illusione di uno studio scientifico, sull'impossibilità di capirle fino in fondo, di dare loro un senso. È anche un romanzo sul sogno di far coincidere una stessa esperienza umana in modo che sia la stessa per due persone distinte, miraggio che pare impossibile; una stessa scena viene raccontata così come viene vissuta dai vari partecipanti, quello che ne pensa uno, quello che ne pensa l'altra, gli strati di significato che si ammucchiano, tutti diversi, nessuno uguale. Eppure, e questo forse è un punto di calore struggente, Catherine Lacey sottolinea la consapevolezza del sentire umano come universale. I suoi personaggi condividono bisogni, speranze paure; l'essere umano si rivela sotto sotto come una creatura semplice, con le stesse necessità basilari – farsi capire, farsi amare – eppure la parziale incomunicabilità del sentire tiene tutti distanti. Chi più, chi meno.
Un aspetto marginale del romanzo, che comunque ho apprezzato parecchio, è l'astensione dell'autrice dal giudicare le bizzarrie new-age di Chandra e le stesse cure cui si sottopone Mary per liberarsi dei suoi dolori psicosomatici. Forse è un altro modo per sottolineare quanto il dentro influenzi il fuori e quanto sia malato evitare di ascoltare il dentro, non lo so. Il fatto che Catherine non si sia sentita di innalzarsi su un palchetto di ovvietà per dirci “no, ma guardate che questa cosa è stupida, sprovveduti lettori” è un ulteriore punto a suo favore. Anche perché tutti noi abbiamo chiusa nel fondo dell'anima una qualche credenza stupida da cui accettiamo di farci guidare, cui permettiamo di influenzarci. C'è chi attende con trepidazione l'oroscopo di Brezsny, chi cammina solo su mattonelle dispari. Io credo che l'universo mi mandi un segnale di affetto quando trovo delle monetine per strada. L'umano tocca vette altissime, ma è progettato per essere stupido. Fragile, emotivo e incoerente.
Catherine Lacey lo sa. Lo sa e fa spallucce.
E io le voglio bene così.