E
dunque, come capita sovente negli ultimi tempi, mi trovo a scribacchiare da una
sala della biblioteca. Non è improbabile che gli astanti mi odino, vengono qui
per studiare e si ritrovano la bibliotecaria-custode che pesta sui tasti manco
le avessero offeso la madre. Scusatemi, sconosciuti studenti. Possano lo studio
esservi lieve.
Pensicchiavo,
nelle ultime settimane. Speravo di riuscire ad arrivare ad una qualche
conclusione prima di buttare giù questo post – che poi non si tratta neanche di
un tema meritevole di tanto impegno – ma a quanto pare non sono fatta per
trovare soluzioni senza essermici prima arrovellata per iscritto, quindi.
Pensavo
ai libri, e a quello che hanno significato per me nel corso della mia intera
vita. Pensavo che non ho mai trascorso periodi di reale benessere che non
comprendessero una lettura, che ho sempre avuto le pagine di un libro in cui
rifugiarmi, che le storie sono per me la sicurezza più grande. Un appiglio che
non mi manca mai.
Ho
sempre visto questa mio legame coi libri come una benedizione; mi ha reso quasi
impossibile incontrare la noia, mi ha fornito distrazioni e conforto, e mi ha
insegnato più di quanto io possa spiegare senza andare sull’orrendamente
personale. Senza libri non sarei io; i miei processi mentali non sarebbero gli
stessi, la mia capacità di cogliere il mondo sarebbe mozzata. E diciamocelo, i
libri sono il mio ambiente, il mio porto sicuro, il mio posto felice. I libri
mi spalleggiano, mi rafforzano. Sono cosa
mia.
Ho
iniziato dicendo che ho sempre vissuto questo rapporto come una benedizione. Ecco,
tempo fa ho iniziato a guardare alla questione dal punto di vista opposto; se è
vero che i libri mi hanno influenzata a livello così profondo, che cosa sarei
stata senza?
Il
punto è che nell’ultimo anno ho iniziato ad avventurarmi un po’ fuori da quello
che consideravo il mio spazio felice, il mio porto sicuro. Dalla mia
comfort-zone, diciamo. E ho scoperto che mi piace, che fuori ci sono cose
interessanti cui prima non avrei concesso la mia attenzione né il mio tempo,
perché non ne avevo bisogno. Soprattutto, ho scoperto che il mondo fuori riesco
ad affrontarlo, e non è che la cosa mi fosse così scontata. Avendo sempre avuto
a mia disposizione una bolla così confortevole, perché cercare qualcos’altro?
Quello
che mi sto chiedendo è se avere avuto a mia disposizione una tana così comoda non mi abbia scoraggiato dall’uscirne,
evitandomi di affrontare sfide che avrebbero potuto farmi crescere come
persona, o di ampliare le mie conoscenze, le mie vedute. Sono così tanti gli
interessi che mi sono rifiutata di approfondire perché “avrebbero tolto tempo
alla lettura”. E di questo un po’, devo ammetterlo, mi pento.
Non
del mio legame coi libri, ma per non averne coltivati altri. Col cinema, ad
esempio. Con la musica. Con la storia medievale, col canto, col gioco di ruolo,
con una qualche subcultura.
Non
che io pensi di aver perso qualcosa, chiariamoci. Non è che dopo decenni di
costante bibliofilia io abbia intenzione di fare anti-proselitismo. Ma nell’ambiente
lit-blogger parliamo sempre dei libri come del passatempo più utile e sano di
questo mondo, senza considerare le eventuali controindicazioni. E la mia
controindicazione è che l’ossessione toglie il tempo a tutto il resto, e questo
non è mai bene. Voglio dire, dentro i libri abitano tra le esperienze più meravigliose che si possano fare, ma i libri non esauriscono l'intera meraviglia del mondo. E privarsi di meraviglie "altre" solo perché se ne ha a disposizione una fonte interminabile non può essere bene. Credo.
Almeno,
per adesso la penso così.
Magari,
si spera, il prossimo post sarà un tantino più utile.
(probabilmente
sarà quello dedicato a Il mio nemico mortale di Willa Cather; che peraltro mi è
piaciuto assai.)