Quando le chitarre facevano l'amore di Lorenzo Mazzoni

Questo libro mi è giunto da un'insperata botta di fortuna. Vi avevo tristemente rinunciato al Salone, poiché già avevo lasciato i miei ultimi possedimenti allo stand della casa editrice, e appena tornata da Torino mi giunge una mail dall'autore che mi chiede se voglio leggerlo, che in caso me lo farà mandare dalla casa editrice. Ditemi, in tutta sincerità, se non ho più fortuna che anima.
E dunque, Quando le chitarre facevano l'amore di Lorenzo Mazzoni, edito da Spartaco, che ringrazio assai per l'omaggio. Anche perché questo libro mi è piaciuto a livelli estremi e inattesi. Partivo con aspettative piuttosto alte, un po' per la trama e un po' per una recensione che avevo letto sul blog dell'Elisa Rampante, eppure la lettura è riuscita a stracciarle. È difficile dare una definizione piena di questo libro, mi viene da definirlo “sommamente ganzo”.
Dunque, la trama. Siamo negli anni '60, in Guatemala, e Luigi Portaleone, reduce di Mathausen e cacciatore di nazisti, viene contattato da Lolicia Smith, una sedicente “amante del Caos” che lavora (più o meno) per la CIA e intende metterlo sulle tracce di Martin Bormann, braccio destro di Hitler, consigliere nell'ombra e autore primigenio della “soluzione finale”. Bormann adesso vive in America, in Texas, in una piccola città chiamata Anita in onore di una donna e di un mulo dal suo fondatore, il cui scheletro comparirà qui e là per le pagine. Bormann ha apportato enormi cambiamenti alla propria vita. Ha viaggiato, ha fatto l'autostop, ha conosciuto altre culture e ideologie, ha conosciuto il rock'n'roll. E ultrasessantenne, ad Anita, ha fondato un'allegra comune hippie e si è messo a finanziare un gruppo rock locale, The Love's White Rabbits. Lolicia chiede a Luigi di trovarlo e condurlo in Guatemala. Da lì in poi ci avrebbe pensato lei.
E diciamo che inizia così, ma prosegue in tanti modi diversi. Adoro i romanzi in cui diverse linee narrative partono dai punti più disparati per convergere nello stesso luogo. Adoro quando nessuna è troppo preminente sulle altre, quando a ogni linea viene dato il giusto spazio, senza che diventi un piccolo riempitivo, un momento di pausa dalle linee principali.
Così la missione di Luigi si alterna a quella del Vecchio, un agente israeliano che vorrebbe portare avanti la vendetta verso i nazisti fuggiti alla giustizia, nonostante il suo Stato voglia concentrarsi su tutt'altro. Si fonde ai due sottoposti del vecchio, Daniel e Adam, o Josè e Ramirez, a seconda delle identità affibbiate loro dal Vecchio, che decide di passare nelle loro mani pure il compito di uccidere Bormann. C'è la linea narrativa di Robert, un reduce del Vietnam reso folle dalla guerra e dagli orrori, fratello di uno dei membri dei The Love's White Rabbits, al quale vuole far saltare il cervello. C'è un sosia cieco del presidente del Guatemala.
Ci sono le chitarre, giusto pochissimi capitoli che raccontano qualche scena, qualche storia, dal punto di vista della Les Paul GoldTop suonata da Steve dei The Love's White Rabbit.
E poi c'è l'America, un'America raccontata da qualcuno che l'ha conosciuta, e a cui credo. Capita di non trovarsi a proprio agio nei luoghi raccontati dai non nativi. Magari non conoscono abbastanza il contesto, e si vede, oppure lo conoscono ma sentono il bisogno di farti capire che lo conoscono, e riempiono le pagine di nozioni inutili e macchinose. Invece credo ai luoghi come li ha trascritti Mazzoni. La sua America, il suo Vietnam, il suo Guatemala.
Altro ingrediente meraviglioso è il contesto musicale, attraverso il quale si rivive il contesto socio-politico dell'epoca. Gli anni '60 in America, prima di Woodstock, ma dopo Bob Dylan. Le proteste dei messicani, gli Hare Krishna, tanta erba, qualche acido, capelli lunghi, pace e amore.
Che poi, e parlo io personalmente, non riesco a capire da dove venga l'attuale insofferenza verso i movimenti hippie degli anni '60 e '70. No, perché sarebbe bello se chi li disdegna adesso tenesse presente che alcuni dei diritti civili di cui gode vengono dalle loro proteste. Per dire.
E dunque, Quando le chitarre facevano l'amore. È un romanzo caotico come piacerebbe a Lolicia, eppure ogni elemento trova la sua giusta collocazione, il suo giusto perché. Ogni cosa che vi compare ha un suo senso perfetto e innegabile. Un'assurdità controllata. Aggiungo che ho adorato i personaggi, tutti, e soprattutto il modo in cui sono presentati, ognuno con pochi tratti fondamentali che aiutano a definire la loro personalità. Perfino i poliziotti che compaiono per poche pagine, che avrebbero potuto essere dei nonnulla di personaggi, delle figure vuote, degli attanti narrativi, hanno un loro perché. In questo senso, forse i più riusciti sono Josè e Ramirez, o Daniel e Adam, che dir si voglia.
Ma è straordinario anche che venga dato un senso a Martin, e che questo senso non risulti forzato o fastidioso. L'Olocausto è stato uno dei momenti più tremendi della storia umana, un crimine così vasto e orribile che è difficile anche solo pensarci. E so che l'elaborazione narrativa aiuta a concepire e a elaborare l'orrore, però credo che sia uno di quegli argomenti da trattare in modo che ne valga la pena, o da non trattare affatto. Che non si stia tanto a cincischiare con la storia, ecco. In questo caso ne vale davvero la pena, e Mazzoni non si è lasciato costringere dai paletti della sensibilità comune, giustificando quanto ha voluto riprendere dalla storia sbottonandosi in lunghi giuramenti di odio verso il nazismo. Il nazismo è il male e basta, si può soprassedere e raccontare altro, ecco.
Penso che sia scontato che io consigli questo libro. Mi è piaciuto un sacco, e per tanti motivi diversi. Dal contesto, alla narrazione, dalla trama così assurda e piena di trovate e collegamenti ai personaggi. Veramente, l'ho adorato.