Piccoli scorci di libri, ovvero recensioni assai brevi e poco impegnative #16


A volte ritorno di John Niven – traduzione di Marco Rossari – Einaudi, 2011

A questo libro mi sono avvicinata dopo un po' di tentennamenti. L'ho tenuto intonso sul comodino per quasi un mese, prima di decidermi a leggerlo. Poi per leggerlo c'ho messo un giorno solo, il che già qualcosa lo suggerisce. Oddio, ammetto che le prime pagine mi hanno fatto seriamente ponderare l'idea di rimetterlo giù. Non ho niente contro la volgarità – come ben sa chi mi conosce di persona – ma mi infastidisce quando è fine a se stessa, quando feci e falli vengono lanciati senza alcun motivo da un lato all'altro della conversazione come palline da ping-pong. Inoltre... ecco, io credevo che Niven fosse americano. Un americano deluso, incazzato, stufo marcio di trovarsi a dividere l'ossigeno con frotte di creazionisti e spietati rimbambiti d'ogni sorta. E invece è scozzese. La cosa un po' mi ha spiazzata, ma poi, beh, ammetto che ho trovato il mio stesso stupefatto sdegno riflesso nelle sue pagine.
Cioè, America... perché? Hai la NASA. Il MIT. London, Hemingway, Steinbeck, Twain. E poi ti riduci a 'sti punti. Creazionismo, sanità privata, scuole pubbliche schifose, il divieto dell'insegnamento dell'evoluzione perché offende la religione. Cioè, America... perché?
Che poi credo sia uno dei motivi per cui l'America ha dato i natali ai più grandi comici del mondo. È dallo sterco che nascono i fiori, no? Infatti Niven apre con una citazione di Bill Hicks e più avanti ci lancia anche una frase di George Carlin. I comici americani sono così intensamente lucidi che non sembrano neanche fare parte dello stesso mondo dei repubblicani.
… ma la pianto di divagare? Un po' di contegno, su. Non ho ancora detto una sillaba sulla dannatissima trama, che diamine.
Allora, Dio è andato in vacanza. Intorno al Rinascimento, vedendo che tutto andava bene, si è detto che poteva anche prendersi una settimana di ferie – il tempo del Paradiso scorre ben diversamente rispetto al nostro – e il libro comincia così, col suo ritorno in ufficio. Allegro e contento – io non riesco a non immaginarlo come il Drugo – porta il pesce fresco alla segretaria, chiacchiera allegro coi sottoposti – gli Angeli – e poi si ritrova a doversi mettere in pari con l'evoluzione intellettuale dell'uomo, cosa che lo lascia in lacrime.
Che fare, se non rimandare Gesù sulla Terra?
Ecco, è più o meno da questo punto che ho cominciato ad adorare questo libro. Perché il Paradiso era veramente inconcepibile, troppo allegro e luminoso e 'tutto va bene' e 'tutti ci vogliamo bene'. Poi Gesù si risveglia nel buco di NY in cui abita con un paio di vecchi amici, due dollari in tasca e il pensiero fisso di fare del bene alle persone, barbaramente ostacolato dalle suddette persone. Ha preso con sé un paio di barboni ed ex-tossiche, una delle quali con due bambini che lo adorano. Gli amici con cui suona da anni lo convincono a presentarsi ai provini di American Popstar – che poi sarebbe American Idol – e... e beh, la storia va avanti, si sviluppa, cresce, si contorce.
Bello. Non mi piace quello che fa vedere, soprattutto perché è vero. Così vero da essere ovvio. E non dovrebbe esserlo.
Comunque sia, io lo consiglio. Mi è piaciuto un sacco, anche se non posso dire che sia stata una lettura indolore.

L'ultimo lupo mannaro di Glen Duncan – traduzione di Tomaso Biancardi – Isbn Edizioni, 2011

Questo lo bramavo da millenni. Un libro sui licantropi edito dalla Isbn. Cioè, io sono – sarei? - una grande appassionata di vampiri-licantropi-streghe e quant'altro, se non fosse che ormai le loro rappresentazioni si sono sgretolate sotto il peso delle storielline d'amore per adolescenti. Quindi, sì, questo libro è stata una boccata d'aria fetida e cadaverina. E sì, è un gran complimento. Questo è un libro sui lupi mannari. Rimane ancora da capire perché cavolo Duncan abbia voluto chiamare il suo protagonista Jacob, ma a parte questo è e rimane un gran libro sui lupi mannari.
Il protagonista, appunto Jacob, narra in prima persona sul diario che si porta sempre dietro. Da quando duecento anni fa ha compiuto la sua trasformazione dopo il morso di un licantropo, è cambiato. Radicalmente. Ha scelto di sopravvivere e di diventare un mostro. Non sta ad ammantarsi di moralismi o a cercare di dimenticare quello che è, bensì ha finito per accettarlo. O questo o il suicidio, si era detto, e non avendo voglia di morire...
Sangue. Tanto sangue. Organi spappolati, arti strappati, scontri a fuoco, feci, sterco, sesso. Tanto per non farci mancare nulla, no? Ed è scritto meravigliosamente. Forse è questo che stupisce di più. Nonostante la crudezza dei contenuti e i pezzi di carne sanguinolenta che ci vengono propinati ben volentieri, la scrittura non è una fredda sceneggiatura, un mero riassunto. È scritto veramente, veramente bene. Le figure retoriche, le riflessioni, i dubbi di Jacob sul morire o il non morire.
Perché Jacob è stufo, annoiato, depresso. Il suo contatto col WOCOP – l'organizzazione che caccia e uccide i lupi mannari – gli comunica che è rimasto solo, l'ultimo della sua specie. E... e beh, la trama si mette in moto con una rapidità tale che mi è anche difficile parlarne. Da subito, prometto, tanto sangue.
Bello, tra l'altro, il mondo 'sovrannaturale' che ci viene presentato. Mi è piaciuto, l'ho trovato credibile. Forse un po' scontato, ma a questi punti non può essere altrimenti.
Quindi... quindi sì, lo consiglio agli appassionati del genere. E non vedo l'ora di leggere il seguito.