Il nazista & il barbiere - Edgar Hilsenrath


Non mi capita spesso, di leggere libri ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale, nella Germania nazista o nell'Italia fascista. Non perché l'argomento non mi interessi, tutt'altro. Sarà che sono cresciuta coi nonni che mi raccontavano di fughe nei boschi, sarà che uno di loro ha rischiato di finire in un campo di concentramento e si è salvato solo perché si erano rotti i binari. Sarà che alle medie e alle elementari le insegnanti chiamavano sempre dei sopravvissuti e dei partigiani a parlarci delle loro esperienze, di rozze ciotole d'acqua sporca con bucce di patata, di lunghe staffette notturne senza scarpe, di soldati tedeschi con gli occhi pieni di confusione e paura. L'Olocausto è una ferita che ancora fa male. Ha spezzato il respiro al mondo intero e ci ha svelato che non c'è bisogno di frugare negli armadi o guardare sotto i letti, per trovare i mostri.
Perciò, di solito tendo a evitare i libri che riguardano, anche alla lontana, l'Olocausto. Perché fanno male.
Eppure questo l'ho comprato, senza neanche starci troppo a pensare. E sono più che lieta di averlo fatto. Il nazista & il barbiere di Edgar Hilsenrath, edito per la prima volta in USA nel 1971, in Germania nel 1976 e arrivato a noi grazie alla Marcos y Marcos, che lo pubblica nel 2010, mirabilmente tradotto da Maria Luisa Bocchino e M. L. Cortaldo. Edgar è un ebreo tedesco, nato a Lipsia nel 1926 e fuggito in Romania con la famiglia per sfuggire alla minaccia nazista. Tuttavia, viene deportato in Ucraina e lì rimane fino al 1944, dopo l'intervento dei russi. Aderisce al movimento sionista, si stabilisce in Palestina per poi ricominciare a viaggiare. Francia, Stati Uniti e infine il ritorno in Germania, a Berlino, dove risiede tuttora.
Il nazista & il barbiere è la storia di Max Schultz, uno sterminatore. Un sergente delle SS. Per parte della sua vita un convinto nazista, un picchiatore, un antisemita. In seguito un ebreo e un barbiere. È la storia di una vittima, non solo di un carnefice. Max è il figlio illegittimo di una cameriera che viene cacciata dalla casa dove prestava servizio poco dopo la nascita del bambino. Non sapendo dove andare, la donna finisce per stabilirsi da Anton Slavitzki, un barbiere sadico, limitato, lercio e stupratore, che alterna le proprie attenzioni tra il neonato Max e la madre. Davanti al negozio di barbiere di Anton Slavitzki c'è un salone vero e proprio, chiamato L'Uomo di Mondo, proprietario Chaim Finkelstein. Ebreo. Con suo figlio, nato a due minuti esatti di distanza da Max, Itzig Finkelstein. Quell'Itzig cui, dopo la disfatta della Germania, Max ruberà il nome e la storia.
Max vive di Itzig. È il suo migliore amico, suo fratello, il suo appiglio. A scuola insieme, nella shiva insieme, in sinagoga insieme, al ginnasio insieme. Max diventa, come Itzig, apprendista a L'Uomo di Mondo. Sono inseparabili, complementari. Max ha i tratti tipici degli ebrei e degli occhi scuri, da rospo, che fanno impressione. Itzig è biondo, con gli occhi azzurri e la pelle candida. Pare un vero ariano.
Poi arriva il nazismo, arriva Hitler. C'è quel suo discorso sulla collina che cambia Max e il suo mondo, gli estirpa gli occhi e gli attacca la rabbia. È tremendo e meraviglioso il modo in cui Hilsenrath descrive quel discorso. Parla delle fruste con cui Anton Slavitzki picchiava Max, di tutte le angherie ricevute, le assimila in un parallelo perfetto con tutti i tedeschi intenti ad ascoltare Hitler e con Hitler stesso. Parla di quel bisogno di rivalsa che si dimentica delle vittime, del concetto d'innocenza e della più debole giustizia. È un momento intenso e rivoltante, cui segue quanto conosciamo. La distruzione dei negozi degli ebrei, i pestaggi indiscriminati, gli espropri.
Max Schultz diventa sergente, viene mandato nel campo di sterminio di Laubwalde, in Polonia.
Eccetera.
Lo stile è colloquiale, chiaro e complesso al tempo stesso. Curioso come all'inizio Max ci racconti direttamente della propria nascita e come si dipinga capace di atti sicuramente impossibili per un infante. Pare proprio quella distorsione della memoria tipica dei ricordi d'infanzia, quando siamo certi di aver fatto o visto una certa cosa, mentre tutti intorno a noi giurano che non è affatto andata così. Scritto in prima persona, la parola sempre a Max Schultz. O a Itzig Finkelstein, come preferite chiamarlo. In certi punti pare che cominci a delirare, trasportato dal rimorso e dal senso di colpa. Invoca Itzig, dialoga con lui, ipotizza le sue risposte. I fantasmi della madre e di Anton lo seguono e si rifanno vivi, di tanto in tanto.
Schietto, a tratti volgare e a tratti poetico. Sospeso tra la dura realtà e il terreno morbido dei ricordi. È una lettura che corre, vibra e scivola. Non ci si incaglia, non ci si annoia. A volte si chiudono gli occhi per non vedere il senso di quelle parole.
Non riesco a trovare una chiusura adeguata per questa recensione. Non posso concluderla col solito e gioviale 'A presto!', con chiacchiere e sorrisi. Facciamo che la concludo così.