Ballata per la figlia del macellaio - Peter Manseau

Devo dire che Twitter qualche soddisfazione me la sta dando. Sarà anche che sono una che si accontenta di poco e si entusiasma per un riflesso colorato sulle piume di un piccione, però dai, quando vieni ritwittata dall'autore di un libro che ti è piaciuto un fracco o quando la Marcos Y Marcos linka la tua ultima recensione... dai, son soddisfazioni.
Ultimamente sto leggendo un sacco, qualcosa come un libro ogni due giorni. Sarà che ancora non ho imparato come si accende la televisione in questa casa – no, non sto scherzando. Ed è una settimana che sto qui, eh – o che il richiamo delle copertine si fa più forte tanto più sono confusa. Comunque, ieri ho finito Tutte le famiglie sono psicotiche di Douglas Coupland, prima avevo finito Il Professore di Charlotte Bronte, prima ancora Mia Cugina Rachele di Daphne Du Maurier, preceduto dal mio primo David Foster Wallace, Verso Occidente l'Impero dirige il suo corso. Eccetera. Ieri sera ho cominciato Prove per un incendio di Shalom Auslander e sono quasi a metà. C'è un problema, però. Più velocemente leggo e meno tempo ho per pensare ad una recensione. Buffo, no? Così tanto materiale da mandare in crisi i circuiti recensori. E così rischio di non recensire opere che non soltanto lo meriterebbero, ma le cui pagine mi gridano di parlare di loro. Libri che mi hanno colpita e stesa e colmata della loro storia, ma che non mi sono presa il tempo di digerire.
Poi ieri sera vado su Twitter e vedo che Peter Manseau ha ritwittato il mio veloce commento alla sua opera, Ballata per la figlia del macellaio. E la forza di quell'opera mi ripiomba addosso.
Urge una recensione, no?
Peter Manseau è uno scrittore statunitense che insegna scrittura creativa all'Università di Georgetown. I genitori erano, ironica bizzarria, una monaca e un prete che hanno abbandonato i voti, come viene narrato dallo scrittore nell'autobiografico Vows, the story of a nun, a priest and their son.
Ma veniamo al libro in questione, Ballata per la figlia del macellaio, pubblicato da Fazi nel 2009. Pare un titolo di quelli fatti soltanto per incuriosire e impressionare, che magari non hanno niente a che fare con la storia, eppure suonano bene. Invece tutto il libro è davvero un'intensa, per quanto divagante, ballata per la fantomatica figlia del macellaio, la piccola Sasha Bimko. Viene narrato a Itsik Malpesh, il protagonista, che è stata la piccola Sasha, all'epoca quattro anni, a salvare la sua famiglia durante la sua nascita, avvenuta nel bel mezzo di un pogrom a Kishinev, in Russia. Una massa urlante e rabbiosa di anti-semiti fece il suo ingresso nella stanza da letto in cui il piccolo Itsik stava affacciandosi al mondo per la prima volta, tra le gambe della madre. E la piccola Sasha, rifugiatasi da loro, si alza e si muove verso gli assalitori costernati, minacciandoli a labbra strette, agitando verso di loro un piccolo pugno chiuso. E questi se ne vanno.
E così Itsik cresce. Viene mandato a lavorare nella fabbrica di cuscini diretta dal padre e a studiare la Torah nella scuola ebraica sorta dopo il pogrom, e lì incontra Chaim, un ragazzo esile, brufoloso, con la mente aguzza e sottilmente intellettuale, che lo aprirà ai misteri della letteratura, vendendogli pagine strappate e concetti. È grazie a Chaim che Itsik realizza di essere, dentro, un poeta. Scrive, compone. La sua musa, la sua bashert, è sempre Sasha Bimko, la figlia del macellaio di cui non conserva nella memoria neppure un fotogramma e che è partita per Odessa con la madre quando lui era troppo piccolo per potersene ricordare.
Quando Itsik è appena un ragazzo, comincia per lui una lunga peregrinazione, un continuo viaggio. Ha nella mente solo Sasha e le proprie parole, strumenti che gli servono per comporre le proprie lodi. Non posso dire altro sulla trama, che non voglio spoilerare. È un libro ricco di sorprese, svolte, incontri inaspettati. Forse un tantinello eccessive le continue coincidenze, ma via, io personalmente ho apprezzato anche quelle. Non oso rivelare oltre, anche perché già ho trovato irritante la 'recensione' di un tizio su Anobii che ha pensato bene di riportare direttamente il finale del libro. Così, per non lasciare dubbi. Complimenti.
Che dire? Non avendo il libro sottomano, dovrò andare un po' a memoria. Ricordo di aver apprezzato la costruzione dei personaggi, ognuno fatto a suo modo, ognuno che si muove in modo coerente con sé stesso e non semplicemente con la trama. Sapete, ci sono di quegli autori che non riescono a dare vita ai propri personaggi, che spiaccicano dei manichini statici e senza vita tra le pagine, sperando che l'inchiostro stesso possa dotarli di personalità... invece no, questi sono proprio vivi. Lo stile era intenso, fluido, ricco. Di questo sono sicura. La narrazione si svolge su due livelli temporali, quello di Itsik e quello del suo traduttore. Sì, il suo traduttore (che poi io, lì per lì, pensavo davvero si trattasse del traduttore dell'opera intera e ho saltato le pagine iniziali...), un giovane bibliotecario cattolico interessato alla cultura ebraica che racconta come è diventato amico e traduttore dell'anziano poeta yiddish. Sono intermezzi abbastanza brevi, che si diradano col progredire del libro, che dapprima ho trovato eccessivi, di troppo, ma che dopo un po' ho iniziato ad apprezzare. Un po' lo capisco, il traduttore. Nato in una famiglia cattolica osservante, si ritrova ad un certo punto appassionato di una cultura 'altra', una cultura vissuta intensamente, piena di sfaccettature, diramazioni, una tradizione letteraria e musicale invidiabile, che però si basa su una religione che non è la sua. Ultimamente mi sto appassionando molto di letteratura ebraica e diverse volte mi è balenata per la testa l'idea d'imparare l'yiddish o l'ebraico. Eppure sono 'cose' che non mi appartengono e a cui sento di non aver diritto. Non credo di potermi spiegare meglio di così, perciò lascio cadere il discorso.
Credo sia d'uopo dire e sottolineare che Peter Manseau, con quest'opera, è stato il primo non-ebreo a vincere il National Jewish Book Award. Un motivo ci sarà, no?