Tendo sempre a dubitare e
ad allontanarmi, di fronte ai grandi casi letterari. Sapete, quelle
pile sterminate di uno stesso libro che si mettono bene in mostra
dalla vetrina di ogni libreria e che attendono, alte e imponenti, in
agguato dietro ogni angolo, mettendo in ombra tutte le altre
pubblicazioni. C'è qualcosa, in questi successi improvvisi e
assoluti, che non mi convince, che mi fa storcere le labbra, che mi
fa passare oltre con una smorfia. Forse è vero che sono un po' snob.
O forse è che di solito i casi letterari sono tali perché riescono
a piacere un po' a tutti. E quando qualcosa piace a tutti, spesso è
perché è innocua e non sferza né ringhia, ma si limita a blandire.
O magari è che, specie negli ultimi tempi, i 'casi letterari' sono
decisi a tavolino in maniera così palese e disgustosamente manifesta
che proprio non posso fare a meno di sentirmi presa in giro, quando
passo davanti all'ennesimo best-seller, il nuovo libro rivelazione,
la nuova sfida all'editoria, la nuova frontiera della narrazione.
Solitamente, una nuova schifezza che nel giro di due mesi cadrà –
e meno male – nel dimenticatoio.
Perciò, quando un paio
di anni fa non potevo entrare in libreria senza sentirmi quasi
aggredire dalla spaventevole quantità di Carlos Ruiz Zafòn,
non mi ero presa neanche la briga di leggere il retro delle
innumerevoli copertine che avevo di fronte per decretare dentro di me
che assai probabilmente mi trovavo innanzi all'ennesima boiata.
Occhiataccia, sospiro e via con tracotanza.
Poi l'altro giorno, in
biblioteca, mi trovavo con la bacheca mezza vuota e niente con cui
riempirla. Vagavo per il magazzino senza trovare nulla, poi mi sono
imbattuta in quel nome così famoso da essermi familiare e, il
fastidio lenito dal tempo, mi sono azzardata a prendere tra le mani
'L'ombra del vento', edito da Mondadori nel 2004. Ho
letto la trama velocemente, mentre avanzavo verso la bacheca. E,
inaspettatamente, mi ha avvinta. Uno dei libri più potenti e
meravigliosi che io abbia mai letto in vita mia. Un'opera d'arte, un
capolavoro, una rivelazione. L'ho iniziato e finito nel giro di un
paio di giorni e... ed è fantastico.
La narrazione è
coinvolgente, ma non la definirei esattamente 'intensa'. Zafòn ti
trascina nel fluire delicato della sua trama in modo gentile, senza
forzarti. Non è stato come con Roth o con McEwan, quando mi sono
trovata catapultata quasi con violenza nella vita dei personaggi. No,
con L'ombra del vento è stato quasi un sussurro, un lento scivolare
nel sonno. Mi prendevo il tempo di sospirare o di accarezzare le
pagine, di distogliere lo sguardo e guardarmi intorno, poi tornavo a
leggere come se non ci fosse stata alcuna interruzione. Il mondo
attorno a me aveva preso la forma della Barcellona di quegli anni.
La storia è intricata ed
estremamente ben congegnata, narrata in prima persona da Daniel, il
protagonista. Orfano della madre e figlio di un libraio, ha appena
undici anni quando il padre decide di renderlo partecipe di uno dei
misteri di Barcellona, condiviso e protetto da neanche un centinaio
di persone, tutte innamorate dei libri. Siamo a metà degli anni '40,
quando Daniel viene svegliato dal padre nel cuore della notte e
condotto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, custodito dallo
scostante e anziano Isaac. Secondo la tradizione, Daniel viene
lasciato libero di inoltrarsi nell'intricato labirinto di scaffali e
scegliersi un libro. Un libro, uno solo, da portarsi via, da tenere
sempre con sé, da leggere e da proteggere. Un libro suo, dal quale
verrà scelto e non viceversa. Daniel trova questo fedele e cartaceo
compagno ne 'L'ombra del vento' di un certo Juliàn Carax e se lo
porta via, passando poi l'intera nottata a leggerlo. Folgorato dalla
lettura, chiede informazioni al padre su questo Carax, ma il padre
non sa rispondergli e decide di chiedere al famoso libraio antiquario
Barcelò, un uomo pomposo e orgoglioso, a sua volta interessato a
Carax. Quanto Barcelò rivela a Daniel è terribile: da decenni,
qualcuno vaga alla ricerca di tutti i libri di Carax per bruciarli,
distruggerli, cancellarli dalla memoria.
La storia è un lungo
susseguirsi di 'perché?', le cui risposte commuovono o feriscono.
Ammetto che ad un certo punto mi sono trovata a piangere. Capita
sempre più di rado che una lettura riesca a tagliarmi così a fondo
da strapparmi una o due lacrime. Eppure, Zafòn c'è riuscito. È che
in questo romanzo i personaggi raggiungono un dolore dannato e
perfetto, con le loro storie, le loro sfaccettature, la loro
fragilità e le loro debolezze. Non si può fare a meno di
comprenderli, non si può evitare di lanciare un sorriso triste
neanche a Fumero. Non si può e basta. E questo, per me, è segno di
grandezza.
Una delle cose che più
mi hanno colpito è stata la capacità di nascondere fino quasi alla
fine un punto tanto ovvio e palese quanto bellamente ignorato. Ora,
io di solito assassino e motivazioni le becco subito. Basta un nome
messo lì quasi per caso, un vago riferimento a una macchietta sulla
camicia e salto su come la Fletcher. Eppure finché non l'ho letto
chiaramente nero su bianco, non c'ero arrivata. Neanche l'avevo
sospettato. Ma, ripeto, gli indizi c'erano tutti. Erano lì, docili e
fruibili, in attesa che io li interpretassi. Un genio.
Avete presente il Libro
Brutto che ho recensito l'altro giorno? Ecco, una delle cose che mi
hanno fatto imbestialire è stata la scelta deliberata di prendere in
giro il lettore sviandolo totalmente, privandolo di ogni indizio,
nascondendogli le prove pur di sorprenderlo alla fine. Non si fa
così, è indice di totale incapacità da parte dell'autore, che
piuttosto che rischiare e dare al lettore le informazioni cui ha
diritto per interpretare la trama, gliele cela per poter dire, alla
fine di averlo saputo ingannare con la propria arguzia.
Contrariamente alla turpe lettura di cui favellavo, Zafòn è stato
sincero. Sincero, ma abile. Estremamente abile. E innanzi a tanta
capacità, mi inchino.
Dicevo, un altro aspetto
che ho apprezzato molto è stato la credibilità dell'intreccio. Non
si tratta semplicemente di coincidenze, quanto un meccanismo sottile
di causa ed effetto. È stato Daniel, con le sue domande e le sue
indagini, a mettere in moto il meccanismo della trama. Se avesse
fatto come gli era stato suggerito a pagina 53 e 54, il libro si
sarebbe concluso così. Invece no, ha voluto... ma lasciamo stare,
che non posso mica rivelare troppo.
I personaggi. Sono
meravigliosamente imperfetti, credibili, vivi. Sono vivi. Non
c'è alcuna forzatura nei loro comportamenti, nel loro rapportarsi
gli uni agli altri, nelle loro reazioni alle varie vicende. È come
se la trama l'avessero tessuta loro stessi, senza il bisogno della
mediazione dell'autore. Non si può non voler bene a Daniel, a
Fermìn, a David, a Isaac, a Barcelò... né si può fare a meno di
voler abbracciare e stringere gli echi di un passato maledetto e
doloroso.
Un passato che si
riflette nel presente di Daniel, come un sussurro velenoso.
Questa recensione si sta
facendo troppo lunga, ben più pesante del libro cui è dedicata. Mi
prendo ancora giusto il tempo di segnalare che, nonostante i temi
affrontati e il contesto storico, la lettura non risulta mai pesante
o noiosa, essendo spesso intervallata da esilaranti battibecchi,
freschi e nonostante tutto credibili.
Non posso non consigliare
di leggerlo con tutta me stessa. Aggiungo che ho trovato ottima la
traduzione di Lia Sezzi. Peccato che in seguito si sia deciso
di affidare l'adattamento delle opere di Zafòn a Bruno Arpaia che,
nonostante pubblichi con Guanda, pare essere allergico ai
congiuntivi.
A presto :)