Mi faccio sempre un'idea
di un libro, prima ancora di averlo tra le mani, basata su chi me
l'ha consigliato o dove ne ho sentito parlare. Ultimamente sbaglio
piuttosto spesso. Pastorale Americana di Philip Roth,
edito da Einaudi nel 1998. Credevo che mi sarei trovata a leggere un
pulp violento, volgare e rocambolesco, lunghi viaggi in macchina,
bettole fatiscenti piene di bifolchi ubriachi, risse e prostitute.
Invece no, proprio no.
Inizia in prima persona,
con le riflessioni di Skip, uno scrittore affermato, sullo Svedese.
Che non era affatto svedese, ma ebreo come lui. Il vero nome era
Seymour Levov e frequentava la sua stessa scuola a Newark decenni
prima del momento in cui Skip decide di scriverne. È un inizio
strano, staccato dal resto, una cornice che viene praticamente
dimenticata e di cui non si fa più cenno, al punto che verrebbe da
chiedersi perché Roth abbia sentito il bisogno d'inserirla. Credo
che sia stato per darci un'idea più precisa della figura dello
Svedese, vero protagonista del romanzo, visto da fuori. Alto, biondo,
eroico. Eccelso negli sport, brillante nello studio, umile e cortese.
Quasi schiavo dell'idolatria di cui è oggetto, eppure non
schiacciato né succube. Skip ce lo racconta coi suoi occhi
adolescenti pieni di ammirazione e noi possiamo farcene un'idea da
Super-man privo di poteri, un grumo di virtù a forma d'uomo. È
difficile inquadrare lo Svedese, prima della seconda parte. Ma poi
arriva.
Skip incontra il fratello
dello Svedese, Jerry Levov, chirurgo affermato, presuntuoso e
sorridente, durante una riunione degli alunni delle superiori. Gli
racconta che lo Svedese è morto pochi mesi prima e subito dopo gli
rivela quel segreto che aleggiava sulle labbra stesse dello Svedese
quando, pochi mesi prima, aveva voluto incontrare Skip con una scusa.
La bomba piazzata dalla figlia Merry in un emporio quando la ragazza
aveva appena sedici anni, la bomba che ha ucciso un medico della
città e che ha distrutto la vita tranquilla e beata di un'intera
famiglia.
Si comincia dalla fine,
dalla morte di Seymour lo Svedese, per poi andare indietro nel tempo,
saltando di anno in anno, dall'infanzia all'adolescenza, poi di nuovo
all'infanzia e poi un nuovo balzo in avanti. Collegamenti logici
lievi che trasportano da un capo all'altro dei ricordi e delle
riflessioni di Seymour, dalla sua giovinezza a quella della figlia,
dalla prima moglie Dawn al padre severo e duramente giusto. La vita
di Seymour, i suoi ideali, le sue convinzioni, i suoi continui sforzi
per guarire la balbuzie della figlia e per tirare la moglie fuori dal
baratro dopo la bomba.
È un romanzo
trascinante, avvolgente e intenso. Soprattutto intenso. Passato il
primo capitolo, un po' claudicante, sono giunta alla fine della parte
di Skip e da lì in poi è stata una corsa, un forsennato girare di
pagine, un continuo gettare occhiate al libro quando non lo tenevo
tra le mani. Leggerlo mi lasciava svuotata, con l'animo tremolante e
gli occhi vacui. Non ero più dalla mia amica a Reggio Emilia, ero in
America, a Newark. E non ero nemmeno più io, non osservavo più il
mondo con i miei occhi, ma con quelli di Merry, di Seymour, di Jerry,
di Dawn... il mondo intorno inghiottito dalla Pastorale Americana,
camminavo più sulle pagine che sull'asfalto.
Non ho molto altro da
aggiungere, avendo deciso di far calare un velo di discrezione su
considerazioni economiche e politiche che sono tutte mie – e
soprattutto, avrebbe senso mettersi a battibeccare sul ritratto della
classe imprenditoriale di un romanzo che è stato scritto quindici
anni fa? - quindi mi limito a consigliarvelo con tutto il cuore,
laddove questo libro si è impiantato con chiodi e Vinavil.