Educazione Siberiana - Nicolai Lilin

Salve a tutti! Sì, è da un po' che non scrivo, d'altronde ho anche già spiegato il perché. Erano passati sei mesi dall'ultima volta che le molecole mie e di mia sorella si erano abbracciate in un parossismo di gioia, amore e cinismo, quindi è normale che io mi sia presa qualche giorno per respirarmela bene, prima di rimettere mano a questa pagina virtuale. Ha appena sporto il suo muso sorelloso dalla porta, mi ha fatto un miagolio interrogativo e poi è tornata nell'altra stanza. Nella mia famiglia si comunica così, a miagolii e versi. A volte facciamo anche le fusa. Siamo una famiglia di gatte.
Ora, mentre di là il sangue del mio sangue è impegnato a preparare la cena e a mettere tavola, mi metto comoda e penso a come parlare di un libro che mi ha davvero, davvero colpita, 'Educazione Siberiana' di Nicolai Lilin, edito da Einaudi nel 2009. A quanto ho capito è il profilo dell'autore a salutarci dalla copertina, mangiato dall'ombra, un tatuaggio sul collo.
Ora, ho fatto due ricerchine veloci su questo libro, cosa che di solito non faccio quasi mai, per una recensione. Di norma preferisco evitare che il mio punto di vista venga intaccato da versioni altrui. Però stavolta ho dovuto fare un'eccezione, perché non capivo se tra le mani tenevo un'autobiografia molto romanzata o un romanzo con spunti autobiografici. Onestamente? Non lo so. Devo credere all'autore, ciecamente? Devo fidarmi? È davvero andata così, in ogni occasione? Io non lo so. Non c'ero, non ero lì. C'era lui, a me tocca fidarmi. C'è un'altra questione che sento di dover menzionare, perché ho visto che è molto dibattuta. L'ha scritto davvero Lilin o è frutto di un editore assai oculato e di un ghost-writer molto compartecipe? Io non lo so. Posso solo dire, dal basso della mia ignoranza, che questo libro mi ha preso a pugni l'anima. Dire che mi è piaciuto sarebbe assai riduttivo. Dal mio punto di vista di umile lettrice, per me può averlo scritto anche Paperino, la lettura è stata avvincente e io ne sono pienamente soddisfatta.
Ordunque, di che parla quest'opera? Di Nicolai e della comunità in cui è cresciuto. È nato nel 1980 in Transnistria – e qui è farina del sacco di Wikipedia – che è uno stato dichiaratosi indipendente nel 1990, ufficialmente ancora considerato parte della Repubblica di Moldavia. Un sottile lembo di terra tra Ucraina e Moldavia, erroneamente indicato sul retro della copertina come territorio siberiano.
Ora, Nicolai è nato in una certa famiglia e in una certa comunità. Una comunità molto particolare, costituita in buona parte da criminali. Legge e ideologia criminale sono ribaltate, del tutto in favore della seconda. Perché sì, in quegli anni il crimine era sostenuto da una data ideologia e da un fitto reticolato di regole e riti specifici e Nicolai ce lo racconta, lui che è nato e cresciuto nel momento in cui quella comunità si stava sgretolando, minacciata dalle leggi di uno Stato che avanza e dall'ombra di un concetto di delinquenza molto più pragmatico e malato.
Devo ammetterlo, il punto di vista mi ha disturbata molto. Leggere di un ragazzino che gira armato, di come i poliziotti venissero costantemente umiliati e ostacolati, il racconto di mini-molotov lanciate con la fionda verso le forze dell'ordine... certo che mi disturba. Sarà che io voglio credere nella legge, ho bisogno di crederci. Nonostante gli scandali, i pestaggi, i timbri di manganelli sulle facce dei manifestanti, non mi sento di lanciare slogan anti-polizia. Quelle poche volte che mi sono trovata ad avere a che fare con dei poliziotti li ho sempre trovati gentili e disponibili. E poi sono allergica alle generalizzazioni. C'è il poliziotto buono, c'è quello cattivo, c'è quello che spero si schianti con l'auto giù da un burrone mentre si reca al lavoro in Val di Susa.
Ma torniamo al libro. Il punto di vista disturba, sconcerta, minaccia dall'interno il proprio senso di giustizia. Chi ha ragione, chi ha torto, chi è davvero cattivo?
La comunità in cui è immerso Nicolai è molto particolare, anche per essere una comunità criminale. I giovani li chiamano 'Educazione Siberiana' perché è formata da individui attenti ai regolamenti ed estremamente rispettosi del prossimo, in molti casi molto più di quanto non possiamo dire di esserlo noi. Rispetto per gli anziani, rispetto per le i bambini, per le donne, per i deboli, per i malati. Rispetto per la cultura, per la conoscenza, per il sapere. Io, quando mi approccio ad un libro ambientato in certi paesi, un po' tremo. Perché sono consapevole di quanto in certi posti certe credenze siano più diffuse cha altrove. Ci sono alcune cose che non riesco proprio a sopportare, quei barlumi d'ignoranza e squallore che se li scorgo in qualcuno non posso fare a meno di allontanarlo. Magari ci metto un po', se ci sono altri lati buoni, ma dopo un po' è più forte di me, mi sento insozzare da tanta pochezza. Queste stigme sono: omofobia, razzismo e maschilismo. E, leggendo 'Educazione Siberiana' ero un po' sul chi vive. Quando mi parlerà Lilin di quanto lo disgustano i 'froci'? Di come le donne debbano stare al loro posto, protette dal loro super-macho? Di come gli ebrei abbiano rovinato l'economia del loro paese? E invece no. Coi miei timori mi sono dimostrata esattamente l'idiota che vedo negli altri. Poi beh, diciamo che i preconcetti non è che mi nascevano dal nulla, ma lasciamo stare, che poi vi tedio, che questi giorni di nostalgica lontananza m'han reso prolissa.
Nella comunità di Lilin, gli ebrei non vengono allontanati né guardati con sospetto, le donne possono prendere la parola, dire la loro ed essere 'criminali' loro stesse. Per gli omosessuali, beh, la comunità lì deficita, ma almeno Nicolai pare essere immune dall'omofobia e facciamo che mi basta. Nell'URSS una legge obbligava le famiglie a mettere in istituto chiunque avesse problemi mentali, per questo moltissime famiglie con figli ritardati o autistici o con altri problemi, si trasferivano nel paese di Lilin, dove erano considerati angeli, esseri puri e incontaminati, protetti e rispettati dall'intera comunità. Nicolai parla con affetto fraterno di un ragazzo che giocava a fare il ferroviere e di una ragazza che sbucava a casa sua ogni tanto e adorava accarezzare i colombi del nonno. Privi della nostra superbia, tutti cercavano di fare il possibile per rendere la loro vita piena e piacevole.
Una delle cose che ho gradito particolarmente di quest'opera è il suo valore come fonte d'informazione sui rituali, sui modi di dire, sulle usanze della società criminale dell'epoca. Il significato e la complessità dei tatuaggi, come ci si comportava quando ci si approcciava ad un criminale rispettato, la vita nelle carceri, perfino come si preparava e come si doveva consumare un certo tipo di tè.
E il particolare, rigido codice di comportamento che vigeva tra 'criminali', quell'idea di giustizia sanguinaria e istintiva che allontaniamo e disprezziamo, ma che a volte ci ritroviamo ad accarezzare, negli angoli più nascosti della nostra mente. Sapere chi merita cosa, diventare la mano stessa di una giustizia imparziale ma inesorabile. È davvero vendetta se non c'è alcun piacere? Sono questioni che mi sono posta durante la lettura, la visione dall'interno di quel particolarissimo ambiente fa tentennare un po' la coscienza. Una coscienza che comunque è già di per sé tentennante, altrimenti non si capirebbe da dove viene la passione occidentale per i supereroi. Alla fine è sempre quella voglia cruenta di giustizia, solo mascherata.
Ma torniamo a noi. Lo stile è semplice e scorrevole, Nicolai passa da un argomento all'altro come qualcuno che viene distratto mentre sta raccontando qualcosa di sé e apre una piccola parentesi per spiegarsi meglio. A me i suoi salti sono piaciuti, spesso improntati su un membro della sua comunità, su una qualche usanza, su una storia che aveva sentito da qualche parte. Per il tipo di opera di cui si tratta, credo che questa successione di eventi un po' sfasata renda tutto molto più convincente, senza comunque renderlo confusionario. Il primo capitolo è affacciato su un finale che non leggeremo in questo volume, ma – presumo – in un romanzo seguente. Si passa all'infanzia, scorci frammentati di gioventù e adolescenza, la scoperta e la passione per i tatuaggi, i rapporti con gli amici... una delle – tante – cose che mi hanno colpito è il linguaggio usato, mite, quasi educato. Mi dava l'idea di raccontare di tutti quegli orrori con tono lento e voce flautata, lasciandosi andare al turpiloquio solo quando era necessario, per riportare dialoghi e litigi.
Che altro dire? È una lettura intensa, ma non pesante, gelida e compartecipe. La consiglio a chi riconosce questo genere di racconti come potenzialmente 'propri'. Aggiungo ancora una volta che mi è piaciuto un sacco e, già che ci sono, mi lamenterò dei prezzi dei libri successivi dello stesso autore. Madama Einaudi, siamo pazzi? La bellezza di 20 euro per un volume 'sì contenuto? Il limite di spesa che mi sono imposta è 16 euro, quindi al di là della mia ligure portata. Quanto bisogna essere ciechi per mettere prezzi del genere?
Comunque! Ho iniziato questa recensione ieri sera prima di cena e l'ho finita poco fa, a pochi minuti dalle 9. E' molto difficile concludere, perché mia sorella mi sta delucidando sull'assenza di calzini appaiati nel cassettone, distraendomi con una certa efficacia.
Che altro dire? Vi saluto, vi mando peli di gatto e vi auguro di leggere qualcosa che vi faccia esplodere dall'interno. Metaforicamente.