Piccoli scorci di libri #69

 Una frase, un rigo appena di Manuel Puig – traduzione di Angelo Morino (Sellerio, 1996)

 


Di Manuel Puig mi sono innamorata follemente con Il bacio della donna ragno, un’opera crudele e meravigliosa incentrata sulla coabitazione forzata di due carcerati nella stessa cella, nel rapporto che poco a poco li lega, mentre in sottofondo rombano i morti e la resistenza al regime argentino.

Una frase, un rigo appena è diverso. Mi verrebbe da dire che è molto diverso, perché non soffre dello stesso terrore – la tortura, la morte – ma il dolore che contiene non è poi così lontano, né meno intenso. Muore un uomo, Juan Carlos Etchepare, e leggiamo il suo epitaffio. Leggiamo poi le lettere che una donna spedisce alla madre del defunto, sempre più sconnesse e sofferenti, e poi torniamo indietro, nel passato di Juan Carlos, scopriamo chi è questa donna, chi sono le altre donne. Una vita compressa in meno di 200 pagine.

Come in Il bacio della donna ragno, anche qui Puig si diverte, scombina, fa dell’opera il suo gioco. Mescola le forme – prima epistolare, poi gli appunti sull’agenda di Juan Carlos, poi passa a una narrazione piana – e sbugiarda lo stesso sottotitolo, “Romanzo d’appendice” – perché i romanzi di appendice, o feuilleton, sono quelli che venivano pubblicati a puntate in fondo alle riviste nell’Ottocento, ed erano considerati meno letterari, più volgari, perché dovevano agganciare il pubblico uscita dopo uscita. Non credo che il sottotitolo sia stato usato qui con ironia, per sfregiare i veri romanzi d’appendice. Lo vedo, personalmente e per quel poco che posso saperne, più come una specie di avviso, un gesto per accomodarsi meglio in mezzo a una produzione letteraria che ha meno pretese, perché la trama in sé potrebbe trasformarsi, nelle mani di un altro narratore, in materiale da soap opera – come del resto si potrebbe dire dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald e Richard Yates. Si parla di amore, di tradimenti, di colpe, di malattia, di morte. Di amore, soprattutto. E dico soprattutto perché sta alla base di tutto il resto.


Dizionario dei nomi propri di Amélie Nothomb – traduzione di Monica Capuani (Voland, 2003)

 


Credo che finora questo sia il romanzo di Amélie Nothomb che mi è piaciuto di più. Non ne ho letti molti, e chissà perché, per quanto mi piacciano, finisco immancabilmente per dimenticarne la trama. Non in questo caso – forse, credo, spero – perché è una trama semplice, dall’inizio favolistico alla maniera delle versioni originali, e più cruente, delle fiabe. Un ragazzo e una ragazza si sposano scioccamente, lei impazzisce in silenzio, e per evitare che la mediocrità di lui si infonda nella bambina, lo ammazza. La bambina andrà a vivere con la zia, sorella della madre, che la adora, trovandola splendida, eccezionale, e la fa vivere come una principessa.

È una storia che prende diverse deviazioni, in cui un evento rivoluziona tutto il resto. È naturale, perché dopotutto è la storia di Plectrude, questa bambina eccezionale che diventa una ragazza eccezionale, e basta poco per sconvolgere una vita giovane, che deve ancora trovarsi. Plectrude si trova e si perde, e a seconda dei casi trova e perde qualcos’altro – sono un po’ criptica, ma davvero non voglio rovinare nulla di questo libro.

La Nothomb scrive proprio come se raccontasse una favola, anche nei momenti più crudi e stentati. Ci sono dei riferimenti, dei punti chiave, situazioni e avvenimenti che si possono ricollegare a tutt’altro tipo di narrazione, ma coglierli non è necessario: possono esserci o non esserci, la sostanza non cambia, e la sostanza è quella di un racconto crudele e inquietantemente pieno di speranza – non so ancora cosa pensare del finale, che tronca profondamente con tutto quello che viene prima, affonda in un genere che-no, non lo dico, però è davvero strano, e ancora non so decidere se mi sia piaciuto o meno.